La rivolta, scatenata dalla tragica situazione economica che affamava i territori, fu sedata con il sangue. Tra le vittime anche una donna incinta
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In questo caldo mese, lo scorso 2 agosto è stato il centesimo anniversario della strage fascista sangiovanese svolta a poco più di un anno dall'omicidio di Stato del parlamentare socialista Giacomo Matteotti, ucciso dalla Ceka, la polizia segreta del Regime, che proprio con questo truce fatto di cronaca, dimostrò alla Nazione di che pasta fosse fatta la dittatura di Benito Mussolini. La storia racconta che a causa della tragica situazione economica, una rivolta spontanea divampò nella cittadina in uno dei luoghi più evocativi del centro storico: il sagrato dell’Abbazia Florense. Seguì l’arrivo delle milizie fasciste che spararono sulla folla, uccidendo 5 persone.
Nella storia nazionale, il 1925 sarebbe stato ricordato come l’anno della “battaglia del grano” messa in campo dal regime fascista. Con questo nome, viene ricordata una battaglia autarchica con cui Benito Mussolini voleva raggiungere l’autosufficienza alimentare di quell’Italia che a quei tempi era economicamente una nazione prevalentemente agricola. Ciò nonostante, dei 75 milioni di quintali di frumento consumati annualmente dal popolo italiano, ben 25 milioni erano importati dall’estero, determinando così un deficit della bilancia commerciale.
Può sembrare strano, ma questo anniversario avviene proprio mentre si parla di altri dazi: quelli che l'Italia e l'Europa stanno subendo da Donald Trump, presidente degli USA; evidentemente anche se a parti inverse la storia si ripete e non fa sconti a nessuno. Al di là dei dazi, anche le proteste sangiovannesi di quei giorni erano collegate alla questione delle terre e di quel latifondismo che dal periodo normanno opprimeva il Meridione italiano e che a livello nazionale sarebbe terminato solo dopo i tragici fatti di Melissa del 29 ottobre 1949 ad una manciata di chilometri da San Giovanni in Fiore.
Nella città di Gioacchino, il Partito fascista non era riuscito ad attecchire in maniera vigorosa come altrove in Calabria. La cittadina, anzi, era diventata il punto di riferimento dei socialisti e dei comunisti della provincie di Cosenza e Crotone. Le cronache del tempo raccontano sezione provinciale del Pnf, per evitare il rafforzamento della "roccaforte socialista” sangiovannese vi aveva messo in campo opportune contromosse con figure provinciali del Partito arrivate già nel febbraio del 1925 per ostacolare quelle “cooperative contadine” che davano problemi di ordine pubblico al potere.
Nella Civica Assise, il sindaco Romei fu costretto a dimettersi dal proprio incarico e fu nominato un commissario governativo, Giovanni Rossi, che si trovò ad affrontare la difficile situazione finanziaria delle casse comunali. Per uscire dall’impasse, Rossi propose l’istituzione di nuove tariffe daziarie sostenendo che “il mezzo più adatto e più tollerato dalla popolazione è il dazio al consumo che non ha avuto finora alcuna applicazione in questo Comune”. In questo modo si spostava il carico fiscale dal ceto proprietario alle classi popolari, soprattutto ai contadini che già non vivevano un periodo florido. Gli scontri sui possedimenti di terra e il diritto di poter coltivarne una parte erano all’ordine del giorno.
Quel 2 agosto 1925, sul sagrato della chiesa si erano raccolti circa 2.000 sangiovannesi, donne comprese; tutti uniti dalla consapevolezza che, come ha scritto Franco Laratta, “fame e miseria regnavano in ogni quartiere”. I militari non avevano ricevuto ordini precisi e non sapevano cosa fare, come affrontare quella massa di persone disperate e affamate. Del tutto impreparati, alcuni di loro cominciarono a sparare, altri reagirono con durezza nella speranza di contenere la folla. Ma in realtà quegli spari provocarono il caos. Fra i morti, che furono cinque (Saverio Basile, Marianna Mascaro, Barbara Veltri, Filomena Marra, Antonia Silletta).
La Marra era incinta, ma non solo per questo San Giovanni in Fiore rimase sconvolta. La rabbia non si placava. Seguirono perciò giorni terribili, durante i quali il regime fascista dimostrò tutta la sua crudeltà e violenza, anche in queste periferiche lande silane. Il parlamentare Francesco Spezzano, nel proprio saggio diario sulla storia del fascismo in Calabria ricorda che fra il 1919 ed il 1922 i contadini diretti da Stano Carbone, Fausto Gullo e Pietro Mancini avevano occupato le terre feudali di San Bernardo, Germano e Buonolegno determinando la grande preoccupazione del prefetto che scriveva: «si è andato diffondendo nella coscienza dei contadini il motto la terra ai contadini. Tale motto trova grande considerazione e credito, perché affermano che questa era stata una promessa fatta al fronte. Ho disposto per ogni evenienza che quella stazione dei Carabinieri fosse rinforzata e perché in questo comune sia nuovamente istituita la delegazione di PS». Ancora oggi, la memoria di quelle tragiche giornate sono ricordate in una lapide posta sul sagrato della chiesa abbaziale posta nel cinquantesimo anniversario dell'evento, nel 1975.