Il boss recluso ammette: «In Italia comanda la massoneria!» e augura la morte ai giudici

La strategia di Antonino Caridi: nominare come legale il figlio di Giorgio De Stefano per parlare con quest’ultimo e ottenere vantaggi giudiziari. Pesanti insulti all’indirizzo del pm Musolino e del gip Indellicati

di Consolato Minniti
29 settembre 2019
09:38
Il boss Antonino Caridi
Il boss Antonino Caridi

«La massoneria! Perché in Italia sai come funzionano i processi, questi comandano giudici, pubblici ministeri, avvocati, polizia, dice a questo devi condannare e a questi devi assolvere, hai capito perché tuo padre è qua?». È un fiume in piena il boss Antonino Caridi mentre colloquia con i suoi familiari in carcere, come emerge dagli atti dell'inchiesta "Libro nero". Egli è convinto che, in Italia, tutto venga comandato dalla massoneria e che financo i processi siano decisi da una sorta di entità superiore che coinvolge tutti gli attori della giustizia. Ma non solo. 

L’odio verso i magistrati

L’acredine provata verso coloro che lo hanno messo in cella non conosce confine. Se la prende soprattutto contro il sostituto procuratore Stefano Musolino e contro il gip Carlo Alberto Indellicati. Le parole riservate ad uno dei pubblici ministeri più in gamba dell’intera Procura e ad un giudice piuttosto noto per il suo lavoro, non sono commentabili, tanto che riteniamo di non riportarle letteralmente. Si tratta di insulti di ogni genere conditi da un augurio: che ad entrambi possa giungere una malattia che porti alla morte. «Che muoiano!», esclama Caridi rabbioso. 


La strategia del boss

Queste frasi sono proferite dal boss della cosca Libri nel momento in cui si trova assieme al suo difensore, nella sala colloqui del carcere. L’avvocato in questione è Giovanni De Stefano, figlio di Giorgio, quest’ultimo ritenuto (con condanna in primo grado) uno dei vertici della massomafia reggina, dei cosiddetti “invisibili”. E Caridi, evidentemente, deve conoscere bene questa posizione di Giorgio De Stefano, tanto da dire al figlio di nutrire grande stima nei confronti del padre, definito «una mente» e chiamato «lucido». Dalle conversazioni emerge come effettivamente Caridi avesse grande rispetto verso De Stefano ed in più occasioni avesse avuto modo di dimostrarglielo. Una stima che si riverbera anche nei confronti del figlio Giovanni, nonostante Caridi non sia particolarmente contento del lavoro svolto dal legale. Il boss, infatti, concorda la presentazione di una istanza per il riconoscimento del reato “continuato” così da sperare di poter uscire dal carcere. Istanza che, però, per diversi motivi, non viene mai presentata. 

 

L’esponente dei Libri allora, pur arrabbiandosi, mantiene sempre un aplomb particolare e dà un messaggio sibillino all’avvocato, definendolo «puro di cuore» e «benedetto da Dio» ed invitandolo a non farsi inquinare. 

 

Ma perché Caridi decide di nominare l’avvocato De Stefano? Secondo la ricostruzione degli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria c’è una strategia precisa che è quella di potersi interfacciare con il vertice assoluto della consorteria mafiosa. Siamo, infatti, nel 2015 e Giorgio De Stefano è ancora un uomo libero e Caridi, a giudizio dei poliziotti, ritiene di poter avere dei vantaggi dal punto di vista carcerario.

 

Fra l’altro, come annotano i poliziotti, Caridi utilizza un linguaggio sempre molto criptico e con molteplici riferimenti a testi sacri, oppure, come nel caso di un colloquio, intervallando fatti e circostanze abnormi e fantasiose, a precise indicazioni riguardo le capacità economiche e gli investimenti finanziari realizzati, adottando comportamenti che potrebbero far ritenere la presenza di problemi psichici che, tuttavia, la struttura carceraria non rileva in nessun altro caso. 

Colpa degli avvocati

Ecco allora che il boss Caridi ritiene che la responsabilità per i suoi problemi giudiziari sia da addebitare a due famosi avvocati: Giovanni Palamara e Giorgio De Stefano. Il primo fu un esponente di spicco del Partito socialista reggino negli anni ’80, con diverse cariche politiche. Fu anche coinvolto in alcune inchieste riguardanti i rapporti fra politica e criminalità, fra cui anche l’omicidio Ligato, ma non fu mai condannato per alcun reato. Di Giorgio De Stefano, invece, si sa quasi tutto, come emerso nel processo “Gotha” che lo ha visto condannato quale vertice della cupola massonico mafiosa di Reggio Calabria. E proprio la comune appartenenza alla massoneria viene evocata da Caridi per i due avvocati. 

 

È in questo contesto che il boss lamenta il fatto che, a decidere tutto, sia proprio la massoneria. Le sue parole non abbisognano di particolari commenti: «La massoneria! Perché in Italia sai come funzionano i processi, questi comandano giudici, pubblici ministeri, avvocati, polizia, dice a questo devi condannare e a questo devi assolvere, hai capito perché tuo padre è qua? E mi hanno condannato appartenente alla cosca Libri che sanno che non faccio la cosca Libri, anzi molti della sua famiglia, di tua madre, quasi, quasi dicevano tu non fai parte della nostra famiglia, ed io ho sempre sopportato per amore e tua mamma te lo può dire. Eppure mi hanno condannato...questo è un infame e questo manderà ad ucciderti dice, Giorgino De Stefano, come? dice e che gli ho fatto a questo? e allora penso quello che gli farà a lui, perché a suo figlio sai perché l’ho nominato? L’ho nominato per poterlo salvare da Dio a suo figlio Giovanni è da due anni che ho fatto la nomina perché mi sembrava un bravo ragazzo e invece è più sporco, più infame e più indegno di suo padre perché l’anno scorso a settembre mentre gli parlavo e gli dicevo avvocato restate un ragazzo puro di cuore, dice vabbè siccome non parlavo più dice vabbè se ti togliamo il 41 indirettamente mi ha mandato questo messaggio, certo dice se facevamo il colloquio due volte al mese... se ti tolgo il 41 parli? No non parlo perché Dio mi ha detto di non parlare, diglielo a quel porco di tuo padre... ».

 

Più avanti Caridi scopre che Giorgio De Stefano è stato arrestato. Il suo stupore è netto: «Può essere?». I suoi famigliari confermano: «Sì, è a Tolmezzo».

Giornalista
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