VIDEO | L’8 aprile scorso ha perso il fratello al fronte, ucciso da una mina antiuomo. «Vivo in Italia da 26 anni. Ho provato anche a farla finita, ma poi mi sono aggrappata a quella speranza di futuro. Qui ho trovato chi mi ha aiutata»
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C’è una guerra che non si combatte solo sul campo. È quella che silenziosamente arriva nelle nostre case, nei nostri quartieri, nei nostri affetti. Nataliya oggi vive a Corigliano Rossano, ma l’Ucraina – la sua terra – non l’ha mai lasciata davvero. Un legame fatto di radici, ricordi e dolore, che si è spezzato l’8 aprile scorso con la morte del fratello, arruolato al fronte.
«Vivo in Italia da 26 anni, ormai è una vita», racconta Nataliya. È arrivata in Calabria per necessità, in cerca di una vita migliore. «Allora in Ucraina era dura, usciti da poco dall’Unione Sovietica, nessuno sapeva come guidare un Paese verso la democrazia. Io lavoravo in ospedale, ma non ci pagavano. A un certo punto ho toccato il fondo».
Ha mai pensato di tornare indietro?
«Sì, spesso. Ma quando sei sola e hai dei figli, devi resistere. Ho provato anche a farla finita, ma poi mi sono aggrappata a quella speranza di futuro. In Italia ho trovato chi mi ha aiutata. Ho lavorato duramente e, passo dopo passo, ho fatto venire anche i miei figli». Natalia ha portato prima i due gemelli, poi il maggiore con la moglie. «Qui è nata la mia prima nipotina. Corigliano Rossano è casa, ma il mio cuore è sempre legato all’Ucraina».
E infatti tornava spesso al suo paese, giusto?
«Sì, almeno due volte l’anno. Per aiutare mia madre nei campi, per respirare l’aria della mia terra, per visitare la tomba di mio padre. Ogni viaggio era una boccata d’ossigeno».
Ma tutto è cambiato con l’inizio della guerra.
«I miei figli non volevano più che tornassi. Troppo pericoloso. Intanto tanti miei parenti venivano arruolati, anche quelli malati. Come mio fratello».
Cosa è successo?
«Aveva problemi di salute, ma alla terza chiamata non l’hanno più escluso. Era un camionista, ha chiesto almeno di fare da autista, perché aveva paura delle armi. Dopo 45 giorni di addestramento, lo hanno mandato al fronte. L’ho visto l’ultima volta a luglio, lo sentivo per telefono tutti i giorni».
L’8 aprile la tragica notizia.
«Lui e altri due soldati sono saltati su una mina. Ma lo abbiamo saputo due giorni dopo. Il suo corpo era irriconoscibile, lo hanno identificato solo dai tatuaggi. I funerali sono stati fatti dal municipio. Io non ho potuto partecipare. Era tutto troppo complicato, rischiavo di non arrivare in tempo».
Ma partirà comunque?
«Sì, subito dopo Pasqua. Andrò per il Radonitsa, il giorno del ricordo dei defunti. Porterò un fiore a mio fratello. Piangerò sulla sua tomba. Ne ho bisogno».
Cosa rappresenta per lei questa guerra?
«Dolore. Rabbia. Ma anche fierezza. Noi ucraini vogliamo solo vivere in pace. Mio fratello è morto per questo. Anche se vivo a Corigliano Rossano, sento quel dolore ogni giorno. Perché la guerra non è mai solo altrove. Entra nelle vite, negli abbracci mancati, nelle notti senza sonno».
Cosa vorrebbe che capissimo qui, in Italia, della vostra sofferenza?
«Che la guerra non è un notiziario da guardare a distanza. È dolore vero, è una madre che piange, è un fratello che non torna più. È il silenzio che urla, anche se ti trovi a migliaia di chilometri di distanza». Natalia abbassa lo sguardo. Poi aggiunge, come un sussurro: «Il mio Paese è pacifico. Vogliamo solo essere liberi. E ogni ucraino, anche chi è lontano, sente che la libertà è una cosa per cui vale la pena combattere. Anche quando costa tutto».