La ricostruzione dell’agguato e il presunto coinvolgimento dei capi calabresi e di Cosa Nostra nel decreto di perquisizione. Da Messina Denaro (che avrebbe avuto informazioni da Salvo Lima) e Santapaola fino a De Stefano, Piromalli e Mancuso: ecco chi, secondo la Dda di Reggio, voleva morto il giudice incorruttibile
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L’esecuzione deliberata da Cosa Nostra in un summit a Catania nella primavera del 1991, i colpi di fucile calibro 12 esplosi contro la Bmw del giudice Antonino Scopelliti, sostituto Procuratore generale della Cassazione. Un caso aperto: dopo 34 anni l’auto del giudice è tornata sul luogo del delitto – tra Villa San Giovanni e Campo Calabro – per nuovi rilievi. E una serie di perquisizioni è stata compiuta dalla polizia a Messina: è lì che, secondo gli inquirenti, il commando omicida avrebbe avuto la propria base logistica. Oggi emergono i dettagli del decreto di perquisizione che può cambiare la storia di quel delitto.
Sono le 17,20 circa del 9 agosto 1991: il titolare della stazione di rifornimento sulla corsia sud dell’A3 a Villa San Giovanni sente un rumore simile alla frenata di un’auto: vede un mezzo uscire fuori strada e chiama il 113. Pensa a un incidente e invece ha appena visto l’atto finale di una strategia omicida partita in Sicilia qualche mese prima. Dal momento in cui viene fissato quel quadro nebuloso sono passati più di 30 anni in cui speranza e delusione si mescolano. Il nuovo step investigativo riparte da quegli attimi e dagli accordi che avrebbero portato alla decisione di uccidere il giudice.
Delitto Scopelliti, la ricostruzione di Avola
L’atto, firmato dal procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo e dalla sostituta pm Sara Parazzan definisce e finora inedito, definisce il perimetro di un’inchiesta che cerca riscontri alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola: Avola si è autoaccusato di essere uno dei due autori dell’agguato e, negli anni scorsi, ha fatto ritrovare il fucile che sarebbe stato utilizzato per uccidere il magistrato.
Secondo la ricostruzione del pentito sarebbe stato Vincenzo Salvatore Santapaola, figlio del boss Nitto, a sparare contro il giudice appena rientrato dal lido Il Gabbiano a Santa Trada. A Piale, i colpi partiti dalla moto guidata da Avola avrebbero ucciso Scopelliti. L’auto del magistrato sarebbe poi uscita fuori strada precipitando in una scarpata. A quel punto sarebbe partita una nuova scarica di colpi sparati da Santapaola una volta sceso dalla moto. L’arma utilizzata viene individuata nel decreto di perquisizione: sarebbe un fucile Zabala Hermanos a canne mozze.
L’atto fa poi riferimento a un «corteo di autovetture»: un’Alfa Romeo 164 con il defunto boss Matteo Messina Denaro ed Eugenio Galea, una Mercedes con Aldo Ercolano e, poi, per la fuga, Vincenzo Santapaola, e una Fiat Uno con Marcello D’Agata. Tutti sul luogo del delitto per «agevolare l’esecuzione e assicurare la buona riuscita» dell’azione.
Messina Denaro, Santapaola e gli altri: Cosa Nostra voleva il giudice morto
Il capo d’imputazione ricostruisce le presunte responsabilità del gotha criminale di due regioni: una catena di comando che inizia con Messina Denaro, capo mandamento di Castelvetrano e continua con Galea, esponente di Cosa Nostra catanese che avrebbe ricevuto l’ordine dal capo. Messina Denaro avrebbe ricevuto «le informazioni operative relative alle abitudini di vita del magistrato da Salvo Lima» e poi avrebbe tenuto i contatti «con un informatore locale rimasto ignoto». Il basista calabrese avrebbe dato al gruppo di fuoco e ai presunti organizzatori dell’omicidio le informazioni necessarie per compiere il blitz.
Nei confronti di Nitto Santapaola «non si procede» perché è già stato giudicato e assolto. Tuttavia, per i magistrati della Dda di Reggio Calabria il boss a capo di Cosa Nostra catanese e della Sicilia orientale, pur contrario alla strategia stragista deliberata dalle mafie, avrebbe avallato «l’esecuzione del magistrato, mettendo a disposizione del proprio gruppo e i legami coltivati con le cosche mafiose della ’ndrangheta». Nel gruppo avrebbe avuto un ruolo organizzativo anche Aldo Ercolano, vice di Santapaola.
Avola, da parte sua, sarebbe stato inserito in maniera stabile nel gruppo di fuoco della cosca: avrebbe guidato la moto e poi nascosto sia il mezzo che l’arma. Sono le sue parole ad aver riaperto le indagini sulla morte del giudice. Figura controversa (in passato fece saltare il programma di protezione per tornare alle rapine), il pentito è un killer seriale che si è macchiato, per sua stessa ammissione, di più di 80 omicidi negli anni di piombo catanesi. Era l’uomo a cui Santapaola affidava i compiti più difficili sapendo che ne sarebbe venuto a capo per una ragione semplice: gli piaceva uccidere.
Cosa Nostra e ’Ndrangheta, la strategia stragista
Tra Cosa Nostra e ’Ndrangheta in quegli anni c’è un filo spesso. Sono legate dalla strategia comune dell’attacco allo Stato: al principio dei Novanta i clan calabresi e siciliani condividono le stragi continentali. Il recente verdetto della Cassazione ha confermato l’impianto dell’inchiesta ‘Ndrangheta stragista: «La causale degli omicidi e dei tentati omicidi è stata adeguatamente individuata dalle due conformi sentenze di merito nella attuazione della strategia del terrore con l'intento di indurre lo Stato a trattare in tema di benefici penitenziari e quanto alla disciplina dei “pentiti”».
Delitto Scopelliti, indagato il gotha della ’Ndrangheta
Il delitto Scopelliti non rientra nel contesto di quell’indagine ma l’elenco degli indagati calabresi pesca nel gotha della ’ndrangheta. C’è Giorgio De Stefano, considerato promotore e dirigente della componente “riservata” della ’Ndrangheta; ci sono Giuseppe Piromalli, Luigi Mancuso, Giuseppe Morabito e Franco Trovato, «soggetti di vertice della ’Ndrangheta unitaria». Boss della Piana di Gioia Tauro, del Vibonese, dell’Aspromonte, coinvolti nel delitto. Così come Pasquale Condello il Supremo, capocosca dell’«ambito di competenza» in cui è avvenuto l’omicidio. Stessa ipotesi per Giuseppe De Stefano, boss di Archi, Luigi Molinetti, responsabile dei gruppi di fuoco del clan De Stefano, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Vincenzo e Giuseppe Zito. Nel mirino della Distrettuale antimafia di Reggio Calabria c’è una sorta di all star della mafia: i capi di due delle organizzazioni criminali più potenti al mondo coalizzati per punire un giudice che non aveva paura della verità.
Morto perché era stato designato come rappresentante dell’accusa nel maxi processo al mandamento palermitano di Cosa Nostra. Ucciso per il suo «rifiuto definitivo a prestare collaborazione all’aggiustamento» del procedimento.
Gli indagati
Maurizio Avola, nato il 28 luglio 1961 a Catania;
Santo Araniti, nato il 25 aprile 1947 a Reggio Calabria;
Pasquale Bertuca, nato il 18 novembre 1957 a Villa San Giovanni;
Vincenzo Bertuca, nato il 1° ottobre 1950 a Villa San Giovanni;
Pasquale Condello, nato il 24 settembre 1950 a Reggio Calabria;
Marcello D’Agata, nato il 13 novembre 1948 a Catania;
Giorgio De Stefano, nato il 27 novembre 1948 a Reggio Calabria;
Giuseppe De Stefano, nato il 1° dicembre 1969 a Reggio Calabria;
Aldo Ercolano, nato il 14 novembre 1960 a Catania;
Eugenio Galea, nato l’8 giugno 1944 a Catania;
Luigi Mancuso, nato il 16 marzo 1954 a Limbadi;
Luigi Molinetti, nato il 10 febbraio 1964 a Reggio Calabria;
Giuseppe Morabito, nato il 15 agosto 1934 ad Africo;
Antonino Pesce, nato il 16 marzo 1953 a Rosarno;
Giuseppe Piromalli, nato il 4 gennaio 1945 a Gioia Tauro;
Vincenzo Salvatore Santapaola, nato il 2 giugno 1969 a Catania;
Pasquale Tegano, nato il 14 gennaio 1955 a Reggio Calabria;
Franco Trovato, nato il 2 maggio 1947 a Marcedusa;
Giuseppe Zito, nato il 27 agosto 1938 a Fiumara;
Vincenzo Zito, nato il 1° dicembre 1958 a Fiumara.