Nel dibattito giuridico italiano è una linea di faglia che si ripresenta ciclicamente, accendendo confronti accesi e polarizzati. A Reggio Calabria, la due giorni organizzata dalla Camera Penale “G. Sardi” e dall’Ordine degli Avvocati, ha riportato al centro la questione della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Il confronto, moderato durante la seconda giornata dalla vicedirettrice de ilReggino.it Elisa Barresi, ha messo a nudo due visioni inconciliabili di giustizia: da un lato gli avvocati, che chiedono una riforma per «mettere finalmente il giudice al centro del processo»; dall’altro i magistrati, convinti che quella proposta costituzionale rischi di creare uno squilibrio pericoloso a danno dei cittadini.

«È una riforma che parte da lontano, ma non ha mai visto la luce» ha ricordato Nico D’Ascola, avvocato penalista e professore ordinario, già membro dell’Unione Camere Penali. «Nel 1987, al congresso di Bari, ne parlammo per la prima volta. Il codice accusatorio era alle porte e ci si domandava come potesse esistere un vero contraddittorio se l’arbitro, il giudice, condivideva carriera e distretto con una delle parti contendenti, ovvero il pubblico ministero». Secondo D’Ascola, è «un’illusione pensare che l’unitarietà delle carriere sia un principio costituzionale. Non lo è». E anzi, prosegue, «la confusione di ruoli ha finito per contaminare la figura del giudice, compromettendone la terzietà».

Sulla stessa linea Beniamino Migliucci, presidente della Fondazione UCPI, che definisce la separazione una scelta di civiltà giuridica: «È una riforma tanto giusta quanto banale. Tutti hanno diritto a sapere che chi li giudica è distinto da chi li accusa. La terzietà del giudice non è un orpello: è l’unica garanzia di imparzialità».

Concetto ribadito anche da Carlo Morace, componente dell’Organismo Congressuale Forense, secondo cui l’attuale sistema, retaggio della stagione di Mani Pulite, ha stravolto l’equilibrio del processo: «Da trent’anni l’immaginario collettivo ha trasformato il pubblico ministero nel vero protagonista, oscurando il ruolo del giudice. Ma è il giudice che deve tornare al centro, e lo si può fare solo ribilanciando la struttura del processo, dando pari distanza tra accusa e difesa». Per Morace, «non si tratta di punire la magistratura, ma di attuare finalmente il principio del giusto processo previsto dall’articolo 111 della Costituzione».

Tra gli interventi favorevoli alla riforma, anche quello dell’avvocato Francesco Gatto, componente del direttivo della Camera Penale reggina, che ha ribadito la necessità di una netta distinzione tra chi accusa e chi giudica, per garantire un processo davvero equo e trasparente.

Dalla parte opposta, le critiche sono nette e affondano le radici nella storia istituzionale della Repubblica. Santo Melidona, procuratore aggiunto a Palmi, ha tracciato una lettura politica della riforma: «Ogni legislatura sembra voler mettere la sua firma su una riforma costituzionale, e questa è a costo zero: serve solo a marcare un controllo sulla magistratura». Per Melidona, l’obiettivo è chiaro: «Addomesticare il pubblico ministero, riportarlo all’ordine, ridurne l’autonomia». E aggiunge: «Dalla legge Castelli del 2005 al decreto legislativo 106 del 2006, fino alla riforma Cartabia, si assiste a un disegno coerente: rendere le procure strutture monocratiche, con poteri accentrati nei procuratori capo e margini di manovra ridotti per i singoli magistrati».

Ma secondo Melidona, la posta in gioco va ben oltre il disegno istituzionale: «Il processo penale è il terreno dove tutto questo si riversa in modo drammatico, con una spettacolarizzazione mediatica che distorce i ruoli. Il pubblico ministero è stato trasformato in una figura da fiction, e ora si vuole completare l’opera recintandolo in una carriera separata, più facilmente controllabile».

Una visione condivisa anche da Antonella Stilo, presidente della seconda sezione civile del Tribunale di Reggio Calabria: «Questa riforma non realizza la terzietà del giudice. Al contrario, rischia di potenziare in modo sproporzionato il pubblico ministero, rendendolo più forte in fase di indagini e nel processo, e meno vincolato all’equilibrio complessivo del sistema». Stilo teme un futuro in cui «il pubblico ministero non risponda più a un obbligo di mezzi, ma venga valutato in base ai risultati, alle condanne ottenute, con ripercussioni gravissime sulla presunzione di innocenza».

Il clima del convegno, pur nella divaricazione profonda tra le due visioni, è stato improntato al rispetto e al dialogo. E proprio questo è forse il punto che unisce le due parti: la consapevolezza che senza confronto la giustizia si impoverisce. Lo ha detto con chiarezza la stessa Stilo: «È importante capire le ragioni dell’altro. Le posizioni sono lontane, ma il confronto resta fondamentale».

Allo stesso modo, Morace ha ricordato come la battaglia dell’avvocatura non sia mai stata contro la magistratura, ma «per un sistema che garantisca equidistanza, fiducia e trasparenza ai cittadini».

Al termine degli interventi programmati si è poi aperto il dibattito ed il confronto tra sostenitori o meno della riforma. Un dibattito vivace ma sempre nel pieno rispetto delle parti in gioco. Il confronto, insomma, resta ancora apertissimo. Ma oggi, a Reggio Calabria, si è fatto un passo in più: si è parlato senza paura di una riforma che, nel bene o nel male, cambierebbe per sempre l’architettura costituzionale del processo penale italiano.