Negli anni ruggenti del dopo Zorro, storico boss della città, a Cosenza guerreggiavano due clan contrapposti e l’esplosivo era lo strumento più gettonato per mettere a segno le estorsioni a cantieri e negozi. C’è stato un tempo in cui, in città, l’eventualità di essere svegliati in piena notte da un fragoroso boato non era così peregrina. Una tecnica oggi superata dal più blando segnale di una bottiglia incendiaria o di una manciata di pallottole posizionate davanti alla saracinesca di turno. Alla fine dei Settanta, invece, e per buona parte del decennio successivo, la strategia comunicativa del racket era decisamente più plateale.

Il colpo da un miliardo di lire al furgone blindato

Ne sa qualcosa l’enoteca di via Nicola Serra, devastata dal tritolo proprio come il deposito di chauffer, all’epoca ubicato poco distante da piazza Europa. Negli stessi anni poi, a saltare in aria fu un’agenzia di autonoleggio di via Alimena. Nel 1979, invece, un commerciante di corso Mazzini riceve una telefonata: «Paga o ti facciamo saltare in aria il negozio». L’uomo fa orecchie da mercante e la reazione dei criminali, in quel caso, non è fedele alle aspettative: si limitano, infatti, a incendiargli uno dei suoi punti vendita di Rende.

La dinamite è anche il più efficace dei metodi, nel 1981, per convincere le guardie giurate della Sicurtransport a scendere dal furgone: due candelotti sul parabrezza posizionati da un incappucciato, mentre un altro esplode una fucilata contro i vetri del blindato e un terzo balza sul cofano dell’automezzo per tagliare l’antenna radio.

Rimane uno dei colpi più spettacolari di sempre, cui partecipano almeno 40 persone che, alla fine, si spartiscono un bottino di quasi un miliardo delle vecchie lire.

Come se non bastasse, nello stesso periodo, un ordigno dal potenziale offensivo elevatissimo devasta gli uffici della Squadra Mobile, all’epoca ubicati in via Guido Dorso, senza mietere vittime, ma solo in virtù di una fortunata coincidenza. Tutti episodi destinati a restare insoluti per parecchi anni fino all’ingresso, sulla scena giudiziaria, dei collaboratori di giustizia.

Gli ordigni al pantalonificio Valentini

Franco Pino, ad esempio. A partire dal 1995, il boss dei boss parlerà delle due bombe confezionate per il pantalonificio “Valentini” sul finire del 1981. In quel periodo, i proprietari sarebbero stati costretto a vestire gratis gli esponenti della malavita, ma a seguito della scissione tra gruppi, successiva all’omicidio di don Luigi Palermo, a beneficiare delle regalie fu solo il gruppo Perna. «Francesco Pagano allora gli piazzò una bomba davanti alla sede dell’azienda – spiegò Pino durante il processo “Garden bis” – I proprietari si lamentarono per l’accaduto e Pagano allora gliene piazzò un’altra, stavolta sotto casa».

Lo stesso Pino, poi, ha indicato nel defunto Marcello Gigliotti, un suo affiliato con simpatie neofasciste, l’autore dell’attentato contro la Mobile. «Un poliziotto gli aveva dato uno schiaffo e lui pensò di vendicarsi in quel modo».

Le bombe per convincere l’imprenditore

Al 1987, invece, risalgono i ricordi “bombaroli” di Franco Garofalo, ex santista del clan Perna. La faida con la banda rivale si era conclusa già da un paio di anni e, in quel periodo, si gettavano le basi per una gestione unitaria del racket sui grandi appalti. In quel contesto, un ordigno viene fatto brillare sul cantiere di un grosso imprenditore, all’epoca “asso pigliatutto” nei lavori pubblici, con l’obiettivo (poi centrato) di indurlo a più miti consigli.

L’uomo scenderà a patti con la ’ndrangheta, imitato un paio d’anni più tardi, dal costruttore edile a cui hanno fatto esplodere un escavatore.

Il rapporto con Cosa nostra

Sono stati i Bartolomeo-Notargiacomo, scissionisti del clan Perna che, tra il 1989 e il ’91 si lanciano in una guerra fratricida con la casa madre, fino a totale autodistruzione. E proprio ai Notargiacomo è legato uno degli aspetti più misteriosi della storia della malavita cosentina: il rapporto con Cosa nostra.

Un primato che i due fratelli Dario e Nicola, autori dell’omicidio “eccellente” di Sergio Cosmai, possono rivendicare per sé in virtù dei rapporti esclusivi che, in quel periodo, vantano con famiglie di alto rango mafioso come i Graviano e i Marchese.

È in questo contesto che s’inserisce un particolare rivelato da Nicola Notargiacomo durante un processo: la presenza in città di un siciliano, amico degli amici, che alloggiato in una villetta di San’Agostino, li istruisce sull’utilizzo di tritolo e affini.

Tra cosentini e siciliani è in vigore all’epoca un accordo commerciale. I corleonesi li riforniscono di eroina thailandese, la più ambita dai tossicodipendenti, e i Bartolomeo-Notargiacomo ricambiano con armi e barili di acido solforico. Dario Notargiacomo, che un giorno chiede loro cosa dovessero farsene di tutta quella sostanza, ottiene questa risposta: «Serve per i tonni». Un po’ più a Sud, chiamavano così le persone da far sparire senza lasciare tracce.