La Suprema Corte mette la parola fine su una delle vicende giudiziarie più controverse della Repubblica: nessuna prova di rapporti tra Forza Italia e la criminalità organizzata siciliana. Ora la sfida è rendere la giustizia più efficiente, trasparente e degna di fiducia
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Si chiude una delle vicende giudiziarie più lunghe e controverse della storia italiana. Per la Corte di Cassazione, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non sono stati associati a organizzazioni mafiose.
Sono passati trent’anni tra indagini, processi, appelli. Ora la Suprema Corte ha pronunciato la parola definitiva: non è emersa alcuna prova concreta di rapporti tra i vertici di Forza Italia e Cosa Nostra. Una decisione che chiude un capitolo che ha segnato profondamente la vita politica e civile del Paese.
La magistratura ha fatto il proprio dovere, indagando laddove riteneva vi fossero elementi. Ed è giusto accettare con rispetto la sentenza definitiva che sancisce l’estraneità di Berlusconi ai fatti contestati.
Ma va ricordato che nel tempo diversi uomini a lui vicini – dirigenti, ministri, parlamentari – sono stati condannati per reati diversi, e alcuni di loro coinvolti in indagini per presunti rapporti con ambienti mafiosi, soprattutto in Sicilia.
Del resto, anche nella Prima Repubblica non mancarono episodi simili: basti pensare ai lunghissimi processi a carico di Andreotti o alla stagione di Tangentopoli, che travolse governi e Parlamento, lasciando ferite ancora aperte nella memoria collettiva. E anche in questo caso, molte accuse si sono poi sgonfiate.
Berlusconi, da parte sua, è stato condannato in passato per altri reati e ha scontato una pena ai servizi sociali. La giustizia, dunque, ha fatto il suo corso. Ma i sospetti sui rapporti con la criminalità organizzata sono stati definitivamente fugati. E questo va riconosciuto, perché le sentenze si rispettano, sempre.
Oggi la vera sfida è un’altra: rendere la giustizia più efficiente, più rapida, più trasparente.
Molte procure e tribunali lavorano con personale ridotto, strumenti obsoleti, carichi di lavoro insostenibili. E mentre la criminalità dispone di mezzi tecnologici all’avanguardia, lo Stato arranca. Intanto la magistratura è sempre più spesso oggetto di campagne di delegittimazione che minano la fiducia dei cittadini.
In vista del referendum sulla separazione delle carriere, il rischio è che il confronto degeneri in uno scontro tra politica e magistratura. Sarebbe un errore fatale.
In un Paese ancora attraversato da corruzione e malaffare, la giustizia va riformata e rafforzata, non indebolita. Solo un sistema indipendente e dotato di risorse adeguate potrà garantire verità e legalità per tutti — e nei tempi giusti.
Perché la giustizia, se arriva troppo tardi, smette di essere giusta.Ed è successo troppe volte che persone innocenti siano rimaste coinvolte in un sistema che sembra non funzionare più, per i ritardi, per gli errori che si commettono. Ecco perché lo Stato deve investire con maggiore forza e determinazione nel migliorare il sistema giudiziario, per accorciare i tempi dei processi, per mettere a disposizione di giudici e procure tutti i mezzi possibili per migliorare la qualità del loro lavoro.


