’Ndrangheta

«Chi aveva i soldi usciva, se no ti facevi la galera», il pentito Mantella racconta il sistema per evitare il carcere e accusa gli avvocati

A Catanzaro nuova udienza nel processo sulle false perizie realizzate per evitare la reclusione dei boss. Per la difesa i legali hanno fatto soltanto il loro lavoro. Il collaboratore di giustizia: «Avevo un debole per Staiano»

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di Alessia Truzzolillo
14 marzo 2024
18:30

«Era un sistema. Se avevi i soldi uscivi dal carcere. Se non avevi i soldi ti facevi la galera».
Terza udienza per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella nel processo istruito dalla Dda di Catanzaro sulle presunte false perizie messe in atto da avvocati e professionisti per far dichiarare i detenuti non compatibili con il regime carcerario. Due sono i grandi accusatori di questo sistema: il collaboratore di giustizia Samuele Lovato, in passato intraneo alla cosca Forastefano attiva nella Sibaritide, e Andrea Mantella che prima di saltare il fosso è stato un killer della cosca Lo Bianco-Barba di Vibo Valentia e, in seguito, capo di un gruppo scissionista.

L’escamotage della malattia per evitare il carcere

Il primo a parlare di false perizie fu Lovato, quando ancora Mantella non si era pentito. «Lovato – conferma Mantella – era a conoscenza del metodo che io avevo di fingere la depressione. Un metodo che aveva adoperato anche lui». Mantella ha affermato di avere usato la malattia come escamotage per evitare il carcere già nel 2005/2006, prima di chiamare l’avvocato Staiano come suo difensore.
Il collaboratore punta il dito contro due suoi avvocati che sono imputati nel procedimento, l’avvocato Giuseppe Di Renzo e l’avvocato Salvatore Maria Staiano. Ma alla sbarra in questo processo ci sono in tutto nove persone: Andrea Mantella, 50 anni, di Vibo, oggi collaboratore di giustizia; Silvana Albani, 73 anni, di Bari, medico; Luigi Arturo Ambrosio, 86 anni di Altilia, medico, legale rappresentante della clinica “Villa Verde”; Domenico Buccomino, 70 anni, di San Marco Argentano, medico consulente tecnico della difesa; Massimiliano Cardamone, 47 anni di Catanzaro, medico legale; Antonio Falbo, 60 anni di Lamezia Terme; Francesco Lo Bianco, 52 anni, di Vibo; Salvatore Maria Staiano, 67 anni di Locri, avvocato penalista, già difensore di Mantella; e Giuseppe Di Renzo 50 anni di Vibo, avvocato penalista, già difensore di Mantella.


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La «doppia funzione di Di Renzo e Sabatino»

La partita tra accusa e difesa, con i collaboratori, si gioca soprattutto nel cercare di dimostrare se i legali abbiamo agito consapevoli di commettere un illecito o abbiamo lavorato semplicemente facendo il proprio dovere.

Nel corso dell’esame davanti al pubblico ministero Annamaria Frustaci, Andrea Mantella chiama sovente in causa anche l’avvocato Francesco Sabatino che non è imputato in questo processo ma è imputato nel procedimento Maestrale – che si sta svolgendo davanti al Tribunale di Vibo Valentia – con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa perché avrebbe favorito le cosche Mancuso, Pardea-Ranisi, Galati e Accorinti.
Mantella racconta che gli avvocati Di Renzo e Sabatino avevano una «doppia funzione», ovvero quella di difenderlo ed essere allo stesso tempo soggetti a sua disposizione.
A proposito di quest’ultimo aspetto racconta che in una occasione, sapendo che le forze dell’ordine stavano andando ad arrestarlo, stava scappando dall’ospedale di Tropea con la complicità dell’avvocato Sabatino.

La soffiata sul sequestro dei beni

Di Renzo, invece, nell’estate del 2009 avrebbe avvisato Mantella di un imminente sequestro dal valore di 4 milioni di euro che la Finanza stava per eseguire nei suoi confronti. Un’informazione che l’avvocato avrebbe ricevuto da un ufficiale delle Fiamme gialle.
Mantella approfitta della preziosa soffiata: «Ho fatto sparire tutto 20 giorni prima del sequestro – dice –. Hanno trovato solo beni immobili. Ho fatto sparire tutto il bestiame, tutti i mezzi del movimento terra. Ho venduto l’escavatore, mandato in Bulgaria».

A pagare ci pensa Giuseppe Barbieri

Per quanto riguarda Staiano, Mantella racconta che lui lo aveva scelto come suo legale perché «ce l’ho fatta sempre a uscire dal carcere con la fantomatica depressione». E per quanto riguarda la scelta dei consulenti di parte, il collaboratore dice che lui prendeva «quello che mi mandava la difesa, l’avvocato Staiano».
Ad andare in giro a pagare, poi, ci pensava «Giuseppe Barbieri, alias Padre Pio, elemento di spicco del clan di Sant’Onofrio», dice Mantella.

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La «scampanellata» contro Staiano e Sabatino

Il pm Annamaria Frustaci ricorda al teste il momento in cui non ce l’ha fatta ad avere delle valutazioni positive sullo stato di salute.
Un fatto che fece adirare moltissimo Mantella. Lo stesso racconta che inviò due lettere dal carcere di Spoleto, una a Salvatore Staiano e una a Francesco Sabatino: «Mi dovevano restituire quanto avevo pagato o mi sarei rivolto alla Guardia di finanza tramite un altro avvocato».
Mantella tiene a precisare che Staiano «si è incassato quasi 100mila euro» per le consulenze e tutto il resto.
Nelle lettere, dice Mantella, «non ho usato toni minatori, era una scampanellata perché non stavo riuscendo a uscire dal carcere». Ammette, però, di avere usato toni più duri nei confronti di Sabatino: «Gli dissi che con la scarcerazione di Luigi Mancuso si era montato la testa e stava trascurando me, che tra sette mesi sarei uscito e avremmo chiarito la questione».

Le preoccupazioni di Mantella

Due notizie, racconta l’ex capo degli scissionisti, lo avevano raggiunto in carcere: «Ho ricevuto una lettera, con linguaggio criptato che mi avvisava che i Bonavota si erano legati ai Mancuso di Limbadi». E in più «ricevetti l’imbasciata che Sabatino si era legato a Luigi Mancuso e si era montato la testa e io mi dovevo guardare perché io ero contro i Mancuso».

«Avevo paura che la polizia leggesse le lettere»

Dai due avvocati Mantella non ricevette mai una rinuncia al mandato. «Ho ricevuto le visite di Sabatino e di Staiano per tranquillizzarmi. «Toni offensivi nei confronti di Staiano? No, io per Staiano avevo un debole. Nei confronti di Staiano ero adirato perché non aveva mantenuto quanto detto perché non mi aveva fatto scarcerare con la depressione».
Anche nelle lettere che aveva inviato dal carcere, fa notare il pm, Mantella lamenta malori.
«Sì, io lamentavo sempre che stavo male perché credevo che le lettere sarebbero state lette dalla polizia – dice il teste definendo “frottole” le parole sul male che diceva di accusare –. Temevo il controllo delle missive perché quando ricevevo controlli in carcere trovavo aperte lettere che erano chiuse e quando mi arrivavano lettere erano chiuse male».

Quando la collaborazione di Lovato «scombina» le cose

«Perché ha iniziato la sua testimonianza scusandosi con Staiano? – chiede nel corso del controesame l’avvocato Enzo Ioppoli –. Se non avesse saputo di Lovato avrebbe parlato?».
«Certamente sì – dice Mantella – perché io ho confessato omicidi di cui nessuno sapeva nulla. Io ho stima di Staiano e gli voglio bene», dice Mantella che, però, afferma di aver giurato di dire la verità.
Mantella afferma di non avere letto, all’inizio, le dichiarazioni di Samuele Lovato perché lui non leggeva, «stavo in una cella fingendo depressione e stavo in un reparto controllato perché minacciavo il suicidio. Se avessi letto avrebbero pensato che stavo bene».
Sarebbe stato Staiano a dirgli che la collaborazione di Lovato «aveva scombinato le cose… che Lovato stava parlando col procuratore Vincenzo Luberto su questo sistema della depressione».

«Ma lei presumeva o sapeva», chiede Ioppoli, che Lovato stava parlando anche di Staiano?
«Lovato aveva certamente parlato di lui perché io glielo avevo fatto nominare. Lovato faceva parte del mio sistema», dice Mantella.

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L’omicidio Cracolici e l’incontro con Nicolino Grande Aracri

«Non ricordo quando ho visto per la prima volta l’avvocato Staiano», afferma Mantella, L’avvocato Ioppoli gli rinfresca la memoria ricordandogli l’arresto per l’omicidio di Raffaele Cracolici e l’incontro nel carcere di Siano con Nicolino Grande Aracri il quale gli consiglia la nomina del penalista.
Ad inchiodare Mantella c’erano le parole del collaboratore Francesco Michienzi e il riscontro delle celle telefoniche che lo individuavano sul luogo del delitto. Nel corso del colloqui in carcere Staiano gli disse che era «fritto» che «quelle celle mi inchiodavano, che ero spacciato».
Si decide di aggredire l’indizio delle celle telefoniche che corroborava le parole di Michienzi.

«Non dire niente a Di Renzo»

Mantella conferma che nella sala colloqui disse all’avvocato Staiano di essere innocente. Mantella ricorda che si decise la strategia della zona marina, ovvero che i riflessi del mare potessero aver turbato le celle telefoniche. «Io avevo un capannone che dava sul mare e ci siamo inventati questa barzelletta», dice.
Si decise per la consulenza tecnica dell’ingegnere Lupis e il Riesame scarcerò Mantella, sostiene il collaboratore, grazie a questa perizia e all’alibi fornito dai suoi congiunti.
«Che la consulenza fosse falsa lo sapeva lei ma non lo sapeva nessun altro», lo stringe ai fianchi la difesa.
Mantella aggiunge un particolare: «Staiano mi disse che Di Renzo non doveva sapere della consulenza tecnica sennò andava a spifferare tutto al procuratore Manzini».

La pazzia simulata un’infinità di volte

«Simulai un’infinità di volte. Ho simulato taglietti, che sentivo le formiche, che vedevo il gatto, che mi suicidavo». Andrea Mantella ricorda di avere simulato la sua follia per la prima volta nel 2005 quando venne catturato dai Cacciatori di Calabria dopo essersi dato alla macchia. Racconta che Di Renzo gli suggerì di fingersi pazzo. Ioppoli contesta che, come risulta da verbale, fu un’imbeccata del cognato Antonio Franzé tramite Di Renzo.
Andrea Mantella dice che a verbale diede una risposta stringente per non spaziare troppo.

«Dei miei tentativi di suicidio ne parlai con i miei avvocati – dice il collaboratore –, perché ero detenuto per reati ostativi e senza l’incompatibilità col carcere non sarei mai uscito».

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