Intercettazioni e sequestri sono stati ritenuti decisivi dal giudice per dimostrare l’esistenza di un’associazione a delinquere guidata dalla famiglia di Lauropoli
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Un’associazione mafiosa dedita alle estorsioni ai danni degli imprenditori ortofrutticoli, ma anche una specializzata nel narcotraffico. È emerso anche questo dal processo “Athena”, è emerso che tra il 2018 e il 2021, nell’Alto Ionio cosentino, a sovrintendere a questo tipo di attività illecita c’era un’organizzazione con al vertice gli esponenti della famiglia Abbruzzese di Lauropoli. Al termine del dibattimento, il giudice ha ritenuto che le indagini - e in particolare le intercettazioni – abbiano consentito di dimostrare tutte le accuse mosse dalla Dda di Catanzaro.
In tal senso, ogni singola cessione di droga avvenuta in quel periodo è stata verificata, il più delle volte grazie a perquisizioni operate sugli acquirenti, ma a riscontro ci sono anche osservazioni e pedinamenti effettuati a carico degli indagati.
Gente che si recava nel luogo dove preparavano le dosi per prendere il quantitativo da cedere, o il più delle volte a prepararlo, la casa materna di uno degli indagati in cui erano presenti bilancini, buste, accendini sostanze da taglio; e poi ingenti quantitativi di stupefacenti nascosti negli agrumeti, sotto gli alberi e in posti debitamente impermeabilizzati. E poi altra droga custodita in contenitori appostiti (boccacci con tappo rosso ben impermeabilizzati). Sequestri e arresti, eseguiti nel corso del tempo, hanno permesso di accertare come dietro tutte queste movimentazioni illeciti vi fossero gli Abbruzzese, con Nicola al vertice più alto.
Anche in tal caso, il giudice ha riferimento a intercettazioni che vedono lui stesso «tenere una stretta contabilità sulle somme ricevute, arrivando a volte a commentare il guadagno, già ricevuto, o da ricevere; lo si nota occupato a contare le somme ancora da ricevere, richiamando somme pari a diciassette mila euro, o nelle ipotesi di maggiori forniture, anche cifre nell’ordine di trentacinquemila euro».
È sempre Nicola Abbruzzese «che segna in via principale le somme date o da dare dagli intermediari che avevano il compito di distribuire le sostanze sul territorio, cedendole o al dettaglio o ad altri soggetti che poi spacciavano al dettaglio, come nel caso di un pacco di cinque chilogrammi di erba che consegna al cugino di Cosenza, Luigi Abbruzzese “Banana”. Ed è sempre Nicola Abbruzzese «che consegnava i pacchi di maggiore quantitativo ai fratelli Pisciotti che la custodivano e la spacciavano anche al dettaglio».
Arresti e sequestri determinavano momenti di fibrillazione e disperazione per la perdita dei collaboratori fidati, per la perdita della sostanza e, nei casi in cui la cessione era avvenuta a credito, anche per perdita economica relativa. Una situazione di difficoltà che, a un certo punto, aveva portato l’organizzazione sull’orlo del fallimento: mancavano, infatti, i fondi per procedere al pagamento degli stipendi. E proprio per arginare questa deriva, Nicola Abbruzzese aveva deciso, a un certo punto, di «interrompere il metodo della vendita a credito». A fare le spese di questa nuova politica era stato soprattutto Gianluca Maestri, il referente della cosca nomade di Cosenza guidata da Luigi Abbruzzese.
Questo e altro, insomma, emerge da intercettazioni che, secondo il giudice, «sono quindi illuminanti per vedere come sussista l’associazione dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti».
L’offerta era ampia: dalla cocaina all’eroina, passando per la marijuana. Al vertice, dicevamo, c’era Nicola Abbruzzese e il ruolo di suo «fidi collaboratori», oltre a Maestri, è stato assegnato in via giudiziaria anche a Gennaro Presta, uomo che «partecipa attivamente alla cessione di sostanza stupefacente al dettaglio sempre soprattutto nell’asse Spezzano Albanese-Cosenza». Discorso differente, invece, per Pasquale Forastefano e la colonna nomade cosentina formata da Marco Abbruzzese alias “Lo struzzo” e Luigi Abbruzzese detto “Willy”. cugini della famiglia di Nicola Abbruzzese, per loro non si ritiene di poter predicare una condotta in termini partecipativi al gruppo qui al vaglio.
«La loro caratura criminale – evidenzia il giudice nella sentenza - li porta certamente ad avere contatti direttamente con il vertice del gruppo attenzionato, ma in capo a loro non si riscontrano elementi idonei a far ritenere un loro addentramento organizzativo o partecipativo al clan degli Abbruzzese di Cassano».