Processo Gotha

Paolo Romeo e i De Stefano: per i giudici era «componente» di spicco della famiglia criminale

Condannato in primo grado a 25 anni, nelle motivazioni della sentenza l'avvocato e politico reggino viene descritto come «intraneo» alla consorteria mafiosa. Nelle carte si legge anche che gli appalti del Comune dello Stretto «avvenivano secondo criteri spartitori» definiti da lui e dagli esponenti del clan

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di Elisa Barresi
3 agosto 2023
08:05

«Conclusivamente Paolo Romeo è componente della massoneria segreta o componente riservata della ‘ndrangheta unitaria quale esponente della consorteria De Stefano». In quel sistema «ambiguo» cristallizzato nelle motivazioni del processo “Ghota” esiste un protagonista indiscusso. Un ruolo verticistico riconosciuto dai giudici del Tribunale di Reggio Calabria all’avvocato Paolo Romeo. Condannato in primo grado a 25 anni, per lui è data per «certa la partecipazione del Romeo nel contesto di quella sua adesione al gruppo mafioso De Stefano cui egli era contiguo. Si badi bene non si è trattato di una vicenda personale di colorazione esclusivamente politica (come si è sostenuto da parte della difesa) con esclusione di ogni possibile risvolto di natura mafiosa, poichè non è stato un fatto realizzato da esponenti politici (istituzionali o deviati, poco importa), avulso dalla realtà mafiosa locale, bensì di una situazione contingente particolarmente difficile di un esponente della destra eversiva il quale si è rivolto ad un clan mafioso reggino per ottenere protezione e rifugio. È stato il clan reggino, a sua volta, a servirsi di altro soggetto affidabile e vicino alla organizzazione per realizzare il progetto richiesto».

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Sono fiumi di pagine intrise di una storia che per anni ha gestito e soffocato la storia della città di Reggio. Parole, testimonianze, lettere che hanno aiutato a riscrivere la storia «occulta» degli ultimi 30 anni. Numerosi collaboratori, confermano i giudici, «hanno espressamente riferito di un interesse del gruppo De Stefano ad una certa svolta politica sino a nutrire una palese speranza verso un eventuale golpe; non si tratta di fantapolitica, come più volte eccepito dalla difesa, ma di semplici indicazioni afferenti una realtà ormai innegabile sulla scorta delle numerose pronunzie giurisdizionali che hanno riconosciuto in alcuni episodi il nefasto legame esistente tra politica e mafia in uno scambio utilitaristico di dare ed avere».


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E la politica reggina vede l'ideologia politica di Romeo «sempre orientata a destra sin dai tempi degli studi universitari che, poi, lo hanno portato ad essere eletto negli organi del Comune di Reggio Calabria e alla Camera dei Deputati (prima nel partito M.S.I. e poi nell'altro partito P.S.D.I.), contestualmente agli stretti legami con il gruppo De Stefano, avevano certamente contribuito alla sua partecipazione alla vicenda Freda».

Ma nonostante la negazione della difesa per i giudici è chiaro che «non si spendono energie di uomini e mezzi per assicurare fuga e protezione ad un brigatista, mettendo a repentaglio la sicurezza di accoliti di un gruppo mafioso (si pensi allo spiegamento di Forze di Polizia all'epoca attuato per catturare il brigatista) se non per identità di ideologie che garantiscano il soddisfacimento di interessi. Un boss mafioso, quale era Paolo De Stefano, ben difficilmente avrebbe posto la propria organizzazione (attraverso il Romeo, Giorgio De Stefano, Filippo Barreca e poi Carmelo Vadalà) a disposizione di un brigatista in mancanza di un proprio tornaconto personale che, dato il momento storico coincideva perfettamente con i programmi eversivi del Freda».

Un disegno criminoso che vede in questa, come tante altre vicende, Romeo al vertice. Infatti, a conclusione dell'esame di tutti gli elementi probatori a carico del Romeo i giudici affermano che «egli ha certamente mantenuto costanti rapporti con il gruppo De Stefano direttamente con il capo Paolo De Stefano oppure attraverso altri accoliti tra cui Giorgio De Stefano rapporti che si sono esplicitati nei vari episodi prima descritti i quali, comunque, non sono significativi di una adesione stabile al programma criminoso del gruppo ed ai suoi fini bensì di una disponibilità personale in situazioni occasionali e contingenti in un vero e proprio temporaneo rapporto collaborativo». 

Né, d'altra parte, sono emerse indicazioni circa particolari rapporti di astio o di pregressi contrasti tra l'imputato ed i collaboratori che lo hanno accusato in modo che possa prospettarsi un'azione di vendetta da parte di alcuno né ancora può parlarsi di semplice contrasto politico, finalizzato a delegittimare un concorrente politico fastidioso poiché nessuno degli accusatori del Romeo risulta avere specifici interessi politici nella vicenda in esame.

L’appartenenza di Romeo ai De Stefano può desumersi non solo dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma anche dal fatto che il suo nome è «abbinato a quello di Giorgio De Stefano in plurime conversazioni da soggetti intranei alla criminalità organizzata. Gli esempi riassunti dal Tribunale sono diversi: la conversazione tra l’imprenditore Franco Labate e Domenico Barbieri, in cui si discuteva di come gli appalti del Comune di Reggio «avvenivano secondo criteri spartitori definiti da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano a cui doveva essere corrisposta la quota estorsiva»; la conversazione intercettata nel circolo Posidonia tra Antonio Marra e Paolo Romeo «in cui il Marra sollecitava il Romeo sulla necessità di riassumere il controllo di Scopelliti attraverso un confronto diretto, ed allo stesso tempo lo metteva in guardia dal rischio di essere scoperti a causa della esposizione connessa all’attività politica ed associativa, dicendo che tale sovraeposizione rischiava di vanificare l’aver operato dietro “i rovi” e di consentire l’accertamento dell’effettivo ruolo direttivo svolto da Paolo Romeo e Giorgio De Stefano».

Il ruolo di Romeo emerge, secondo il Tribunale, dalla conoscenza approfondita del ruolo di Franco Chirico e delle dinamiche interne alla consorteria De Stefano; dal ruolo assegnato e svolto da Paolo Romeo nella tutela degli interessi dei De Stefano nella Perla dello Stretto; dal coinvolgimento di Romeo negli affari della Multiservizi.

Il Tribunale conclude per la «piena intraneità» di Romeo alla famiglia criminale dei De Stefano con un ruolo di vertice. Così come un ruolo di vertice aveva anche «nella struttura della massoneria segreta o riservata dell’ente criminale». 

Giornalista
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