È stata approvata dal Parlamento la riforma della giustizia, argomento lungamente dibattuto in Italia. Con ogni probabilità in primavera anche i cittadini saranno chiamati ad esprimersi attraverso il referendum, in particolare, per quel che riguarda la separazione delle carriere, fortemente osteggiata dai magistrati e dall’Anm, innescando un duro scontro con il Governo. Per Francesco Iacopino, presidente della Camera penale di Catanzaro, si tratta invece di «non perdere un appuntamento con la storia».

Lei cosa voterà?
«Voterò sì, perché ritengo che questa riforma possa davvero migliorare la qualità della giustizia. Vede, nel 1988, grazie all’opera di grandi giuristi come Giuliano Vassalli e Gian Domenico Pisapia, l’Italia archiviò definitivamente il codice fascista, abbandonando il modello inquisitorio per adottare un sistema processuale moderno: quello accusatorio. Fu una svolta liberale e garantista, pensata per tutelare i diritti dell’individuo e stabilire un nuovo equilibrio tra autorità e libertà. Quel percorso è poi proseguito nel 1999, con l’introduzione in Costituzione dei principii del “giusto processo”: parità delle parti, terzietà e imparzialità del giudice, contraddittorio tra accusa e difesa come metodo più efficace per accertare la verità processuale e contenere gli inevitabili margini di errore della giustizia umana. La separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica serve proprio a completare quel percorso di civiltà, rendendo effettiva la parità delle parti e la terzietà del giudice. Giovanni Falcone lo aveva ben compreso quando disse che, nel nuovo codice, tra pubblici ministeri e giudici non potevano più esserci “parentele”. Come può essere davvero terzo un giudice che condivide la stessa carriera del pubblico ministero? E come può esserci reale parità tra accusa e difesa se una delle due parti ha in comune la carriera con chi giudica? È una questione di buon senso, prima ancora che di cultura giuridica e di progresso civile».

La principale riserva espressa nei confronti della riforma è che, in effetti, non inciderà in maniera sostanziale sull’efficienza e sulla velocità della “macchina giustizia” che sappiamo in Italia avere tempi piuttosto lunghi. Cosa ne pensa?
«Chi muove questa obiezione confonde il piano dell’efficienza con quello della qualità. La riforma non nasce per accelerare i tempi della giustizia, ma per elevarne la qualità, così come accadde nel 1988 e nel 1999. È una riforma che “vola alto”, e proprio per questo ne riconosco il valore. Che la magistratura si opponga non mi sorprende: nella sua storia, le componenti maggioritarie si sono spesso schierate contro ogni innovazione — dal processo accusatorio ai principi del giusto processo, fino alla distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti. Eppure oggi nessuno metterebbe più in discussione quelle riforme. Se allora avesse prevalso quella visione conservatrice, saremmo ancora legati al modello inquisitorio fascista. Del resto, in tutte le democrazie occidentali le carriere sono separate: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, Portogallo. Restano unite solo in Bulgaria e Turchia: vorrà pur dire qualcosa?

L’Anm ha più volte accusato il Governo di voler, attraverso questa riforma, intaccare il potere della magistratura, costituzionalmente separato dall’esecutivo, ponendolo in qualche modo sotto il controllo della politica. È così?
«È un’accusa del tutto infondata. La riforma non tocca in alcun modo l’autonomia e l’indipendenza “esterna” della magistratura. Il nuovo articolo 104 della Costituzione ribadisce chiaramente che giudici e pubblici ministeri rimarranno autonomi e indipendenti “da ogni altro potere dello Stato”, dunque anche dalla politica. Ciò che viene introdotto è, semmai, un principio di autonomia e indipendenza “interna” tra chi accusa e chi giudica. Dire che la riforma voglia sottomettere la magistratura all’esecutivo significa distorcere la realtà: la verità, a mio parere, è un’altra».

Quale?
«Dietro l’allarme della magistratura associata c’è il timore di perdere equilibri di potere consolidati. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che concentra funzioni normative, esecutive e disciplinari, a causa delle correnti, di fatto non esercita alcun controllo. I numeri parlano chiaro: il 97-99% delle valutazioni dei magistrati è positivo. Tutti bravi. Eppure la macchina della giustizia continua a produrre tanti errori. In Italia si registrano circa tre casi di ingiusta detenzione al giorno, mille l’anno, con oltre un miliardo di euro spesi dallo Stato in indennizzi. Sul piano disciplinare, poi, il 97-98% delle denunce viene archiviato. Sintomo evidente dell’approccio “perdonista” e “indulgenzialista” dell’attuale organo di autogoverno? Ma un sistema che non sanziona né corregge genera inevitabilmente superficialità e autoreferenzialità. Deresponsabilizza. Ecco perché la riforma, prevedendo due CSM distinti e un’autonoma Alta Corte disciplinare, è necessaria. Il magistrato dell’accusa e quello del giudizio non devono condividere carriere e organi di autogoverno: hanno ruoli e responsabilità diverse. Il sorteggio dei componenti togati, inoltre, serve a sottrarre il sistema al controllo delle correnti che ne hanno minato la credibilità. Separare carriere, CSM e funzioni disciplinari non è un atto ideologico, ma un passo verso maggiore trasparenza, efficienza e responsabilità.

Secondo lei questa riforma potrà assicurare reali garanzie all’indagato o all’imputato, limitando quello che è stato definito un uso spesso politico della giustizia?
«Sì, perché contribuirà a rafforzare la terzietà del giudice e la cultura delle garanzie. Giuliano Vassalli aveva ben chiaro che senza la separazione delle carriere il modello accusatorio non sarà mai completato. Del resto, in quarant’anni di codice accusatorio, con carriere unite, non è stato il giudice ad attrarre il pubblico ministero nel proprio orizzonte di garanzia, ma spesso è accaduto il contrario: il pubblico ministero ha esercitato una attrazione culturale e, talvolta, anche una “pressione securitaria” sul giudice. Quando si arrestano cento persone e, dopo anni di processo, la metà viene assolta, significa che il sistema non funziona: il ruolo di garanzia del giudice è saltato. Restituire la libertà dopo anni di calvario non risarcisce una vita, una famiglia, un’impresa distrutte. Il giudice deve essere libero dal peso e dalle preoccupazioni del pubblico ministero, specie quando c’è in gioco la libertà dell’individuo. Separare chi accusa da chi giudica, allora, significa restituire al giudice la piena autonomia del suo ruolo: arbitro terzo e imparziale, custode dei diritti fondamentali della persona sottoposta a processo. Un giudice più forte, libero e indipendente garantisce un processo più giusto, dove l’imputato non è un bersaglio ma un cittadino titolare di diritti inviolabili».

La giustizia è un tema che riguarda tutti e verso cui i cittadini si mostrano molto sensibili. Con il referendum tutti potranno realmente esprimersi sulla riforma, ma lei non crede che il tema sia stato eccessivamente politicizzato dal Governo?
«Questa riforma è, e deve restare, una riforma di civiltà, non di parte. Attribuirla a uno schieramento politico significa snaturarne la portata storica. Basti ricordare che la separazione delle carriere era nel programma del Partito Democratico fino al 2019, e che la commissione bicamerale presieduta da D’Alema ne aveva già previsto l’introduzione come passo necessario di modernizzazione del sistema. Bisogna dunque discutere nel merito, liberando la riforma da ogni ipoteca politica. Farne una bandiera di partito sarebbe un torto alla giustizia e alla storia del Paese. Mi consenta, ancora, un’ultima riflessione».

Prego…
«Ogni volta che in Italia si è combattuta una battaglia per la libertà e per i diritti, l’avvocatura è sempre stata in prima linea. I primi partigiani italiani furono due avvocati: Duccio Galimberti e Dante Livio Bianchi. In occasione dei grandi cambiamenti in senso liberale gli avvocati hanno costantemente assunto un ruolo decisivo, di responsabilità, e anche oggi faremo la nostra parte. La separazione delle carriere è una riforma identitaria dell’avvocatura penalista, come lo fu quella per il “giusto processo” in Costituzione. Paolo Pinto de Albuquerque, già giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha affermato che questa riforma renderà la giustizia italiana più credibile, rafforzando il modello accusatorio, la presunzione d’innocenza e il giusto processo, proprio come è avvenuto in Portogallo. Sta a noi, allora, dimostrare maturità civile e non perdere un appuntamento con la storia che l’Italia attende da decenni. Se sapremo coglierlo, lasceremo ai nostri figli una giustizia più evoluta e un futuro migliore».