Rinascita Scott, il controesame di Moscato: «Mai mi fu chiesto di votare per Giamborino»
Così il pentito sull’ex consigliere regionale presente al maxiprocesso. Poi la girandola su diversi altri imputati del maxiprocesso
È un controesame breve, ma processualmente importante. Il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, da un lato. Dall’altro l’avvocato Enzo Belvedere, al cui fianco siede l’accusato: Pietro Giamborino. Ex consigliere regionale, figura di spicco della politica vibonese, Giamborino un uomo dalle «due anime» – secondo la Dda di Catanzaro e il Ros – ovvero dal contegno «integerrimo di giorno» e confidente del cugino-boss di Piscopio, Pino Galati ’u Ragiuneri, di notte. Per la difesa, però, l’anima di Giamborino è una sola ed il suo coinvolgimento nel maxiprocesso Rinascita Scott, lascia intendere l’avvocato Enzo Belvedere all’accesso nell’aula bunker, è solo un errore giudiziario.
Gli ultimi undici anni…
Oltre le intercettazioni addotte come elemento chiave dell’accusa, sono i pentiti a puntare l’indice contro l’ex esponente di Dc, Margherita e Partito democratico. Il principale, tra questi, appunto, l’ex killer del clan dei Piscopisani Moscato che lo aveva indicato – addirittura – come un «uomo d’onore» della vecchia società di Piscopio. «Sono stato affiliato nel 2009 ma non so se quando iniziai a delinquere, nel 2005, ci fosse una società mafiosa a Piscopio», dice Moscato incalzato dall’avvocato Belvedere, il quale chiede lumi sui festeggiamenti del suo clan in occasione di un successo elettorale dello stesso Giamborino. «Non so che nel 2010 Giamborino perse le elezioni regionali, non so che nel 2013 perse le primarie per la candidatura a sindaco di Vibo. Io non ho mai partecipato a cene con Pietro Giamborino per discutere di fatti delittuosi, né mi è mai stato chiesto di votare per lui».
Gli Artusa
A seguire il controesame dell’avvocato Franco Muzzopappa, difensore del commerciante di abbigliamento Maurizio Artusa: «Un giorno fui mandato a dargli due schiaffi, c’era gente, gli dissi di venire nel camerino che dovevo dirgli una cosa e poi lui se ne scappò gridando “aiuto aiuto”. Nei giorni successivi ho saputo da Rosario Battaglia e Rosario Fiorillo che si rivolse a Cosmo Michele Mancuso, ma lui lo rimproverò perché gli disse che facevamo bene a picchiarlo, perché ci aveva trattato male. So che gli Artusa hanno subito diversi danneggiamenti per mano dei vibonesi e dei Piscopisani stessi e che negli ambienti della criminalità si diceva che il negozio fosse dei Mancuso». Obiettivo della difesa, in pratica, è smontare l’assunto secondo cui gli Artusa fossero affiliati e protetti dal potentissimo clan di Limbadi. «Gli Artusa erano devoti ai Mancuso. Un giorno per un danneggiamento subito da Pino Lopreiato all’Approdo, ho saputo che Mario Artusa lo andò a prendere e lo portò da Cosmo Michele Mancuso. Non ho conoscenza diretta di questo episodio, me lo hanno riferito».
La difesa di Antonio Vacatello
E ancora, sempre Moscato nel controesame dell’avvocato Muzzopappa, su un altro imputato, Antonio Vacatello: «Lo conosco da sempre, abbiamo avuto ottimi rapporti e commesso reati insieme in materia di stupefacenti». Di altre vicende delittuose, invece, che coinvolgerebbero lo stesso Vacatello, in particolare verso bar, pizzerie e pub concorrenti, Moscato avrebbe appreso solo da altri mafiosi. «Negli ultimi tempi si stava allargando assai e dava fastidio perché faceva estorsioni a nome dei Piscopisani, così Battaglia mi disse che una volta uscito dal carcere avrebbe dovuto prendere provvedimenti. So che gestiva una bisca, che era amico di Razionale e che faceva parte del locale di Zungri. Inizialmente operava con i Fiaré per spaccio e droga». Tutte circostanze, anche queste, apprese da altri: «Ma per sapere, io non ho bisogno dei giornali».
Salvatore Bonavota
In conclusione, sempre l’avvocato Muzzopappa, per l’imputato Salvatore Bonavota: «Lo conosco, abbiamo anche fatto una cena insieme al 501, anche con Rosario Fiorillo». Ma il difensore lamenta di non trovare alcuna traccia nel verbale illustrativo della collaborazione né nell’esame del pubblico ministero. «Con Rosario Battaglia, Pardea, si diceva che i Bonavota avevano conoscenze in tutto il mondo – spiega Moscato – So che Salvatore Bonavota, da piccolo, era stato anche in Canada. E si parlava, anche con Francesco Scrugli, avevano appoggi ovunque».
Il quesito…
Tocca all’avvocato Giovanni Vecchio, invece, controesaminare il pentito nell’interesse dell’imprenditore Francesco Isolabella e di Marco Startari, cognato di Salvatore Morelli, superlatitante di Rinascita Scott. Il primo viene presentato dal collaboratore, in sostanza, come un imprenditore vittima di usura da parte dei Tripodi, mentre il secondo come una sorta di ambasciatore dello stesso Morelli. E poi: «Per accedere ad una carica di ’ndrangheta, allo sgarro, è necessario commettere certi reati, almeno a Piscopio, ma per come vedevo io, fuori da Piscopio, non la rispettava nessuno – spiega Raffaele Moscato – Io ero azionista della cosca, ma c’erano altri che facevano parte della ‘ndrangheta senza sparare e ammazzare». Il quesito, in pratica, formulato dall’avvocato Vecchio, è: per fare parte della ’ndrangheta è necessario commettere reati o no? «Incendiare un negozio è manovalanza, poi c’è gente che fa ambasciate ed è a disposizione, ma a volte può servire di più di uno che spara. Così», replica.
Le domande di Staiano
A seguire l’avvocato Salvatore Staiano. «A ventott’anni avevo buttato la vita, me ne sono reso conto e ho deciso di collaborare con la giustizia. Quando ho fatto questa scelta non ho avvertito nessuno», replica il pentito al difensore. Anche Staiano – che assiste, tra gli altri, l’ex senatore Giancarlo Pittelli – punta sulle fonti di conoscenza dei fatti da parte del collaboratore. «C’è la possibilità che lei possa riferire un sacco di cose in buona fede, ma sulla scorta di un cumulo di sciocchezze che le sono state raccontate?», incalza il penalista, che individua una falla nella latitanza, tra il 2004 e il 2005, di Antonio La Rosa, narrata alla Dda proprio dall’ex killer dei Piscopisani. «Una latitanza – ha stigmatizzato il difensore – che documentalmente siamo capaci di dimostrare non è mai avvenuta. Così come documentale è che Tonino La Rosa sia stato mai detenuto con Michele Fiorillo. Le hanno raccontato un sacco di frottole… Gioco a carte scoperte io». E qui schermaglie prima con l’avvocato del collaboratore, Annalisa Pisano, e poi con il pm Annamaria Frustaci.
Gli avvocati Garisto e Monardo
Il controesame viene completato dall’avvocato Daniela Garisto, difensore del presunto boss di Zungri Giuseppe Antonio Accorinti: «C’era lui al vertice ma non so da chi è stato costituito il locale di Zungri. Io, Rosario Fiorillo, Rosario Battaglia e Francesco Scrugli abbiamo fatto degli appostamenti per realizzare l’omicidio di Peppone Accorinti. Io fornivo armi e moto», spiega Moscato che – incalzato dalla penalista – colloca «nella primavera del 2008 o del 2009» l’aggressione che lo stesso ex sicario dei Piscopisani consumò ai danni del promoter Marco Renzi. L’avvocato Giosué Monardo, invece, controesamina nell’interesse di Salvatore Patania, fratello del defunto Fortunato Patania, che fu ucciso proprio da Raffaele Moscato nel settembre del 2012. «Dopo l’omicidio, per quello che abbiamo saputo, lui si era ritirato», chiosa il pentito.
L’imputato Domenico Polito
Il controesame del collaboratore di giustizia Raffaele Moscato al maxiprocesso Rinascita Scott, prosegue con le domande dell’avvocato Domenico Soranna, che si concentra sulla posizione di Domenico Salvatore Polito. Il penalista, per scardinare le affermazioni del pentito sull’imputato, circoscrive il periodo di conosceva delle dinamiche della ‘ndrangheta, nella fase compresa tra la sua affiliazione alla ’ndrangheta, nel 2009, ed il suo pentimento, nel 2015, ciò mentre le conoscenze del teste sulle presunte attività illecite dell’imputato risalirebbero al periodo in cui, dopo il 2004, lo stesso Polito, unitamente a Nazzareno Colace e a Pantaleone Mancuso alias Scarpuni fu coinvolto nel procedimento Breccia per l’estorsione all’imprenditore Vincenzo Ceravolo.
La casa di Domenico Bonavota
A seguire, l’avvocato Enzo Gennaro, difensore di Domenico Bonavota, presunto boss del locale ’ndranghetista di Sant’Onofrio. «Non so se ricordo la strada, ma so che la sua abitazione è al piano terra – risponde il pentito – Ci sono stato una volta, ma non guidavo io. C’era questo albero di Natale grande, questo salone, grande, poi sulla destra un corridoio che ti portava in bagno. Questo incontro fu alla vigilia di Natale del 2012». E ancora: «Ricordo una stradina piccolina, dove al massimo passa una macchina. Poi c’è un portone ed entri direttamente in casa». E poi: «Ci furono incontri in altre case, un anno o poco meno di un anno prima del mio incontro nel bagno della casa di Bonavota. L’ultima volta Bonavota mi disse che stavano facendo un nuovo locale a Stefanaconi, era una ambasciata per Battaglia, ma a noi non interessava, perché non c’entrava con la faida».