Il maxiprocesso

Rinascita Scott, in aula le dichiarazioni spontanee di Pittelli: «Non sono un massomafioso, il mio un dolore terrificante»

VIDEO | L’ex parlamentare parla dal carcere di Melfi, dove ha iniziato lo sciopero della fame. Dal «massacro mediatico» a quello che definisce come «l’annichilimento» dei suoi diritti. Poi l’appello ai giudici: «Ascoltate gli audio e leggete le carte» (ASCOLTA L'AUDIO)

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di Pietro Comito
18 gennaio 2022
19:21

Partiamo dalla fine: «Se tutto ciò è vero, avete l’obbligo morale di restituirmi l’onore e la vita che mi è stata rubata da oltre due anni». L’inizio, invece, è stato questo: «Le preannuncio che le mie dichiarazioni non saranno brevi, perché sono le prime e probabilmente le ultime che rendo in questo dibattimento». Provato dall’età, dalla carcerazione e dallo sciopero della fame, ma estremamente lucido. L’ultima udienza del maxiprocesso Rinascita Scott ha come momento cruciale le dichiarazioni spontanee rese da Giancarlo Pittelli, il presunto Giano bifronte tra poteri istituzionali e ’ndrangheta, illustre avvocato penalista, parlamentare della Repubblica per più legislature, tornato in carcere dopo la lettera inviata al ministro Mara Carfagna, alla quale chiedeva aiuto «in qualsiasi modo» alla luce della vicenda giudiziaria che lo coinvolge. Il Tribunale di Vibo Valentia (presidente Brigida Cavasino, a latere Claudia Caputo e Gilda Romano) ravvisando il tentativo di interferire sul regolare svolgimento del processo, aveva disposto la revoca dei domiciliari. In videocollegamento dal penitenziario di Melfi, Pittelli si difende con evidente ardore.

«Terrificante dolore»

«Un primo chiarimento – dice Pittelli –. Dalle carceri di Nuoro, per rispondere al massacro mediatico sferrato nei miei confronti, ho parlato con rappresentanti delle istituzioni e ho scritto ad alcune testate giornalistiche. Io non ho scritto ad alcuno nel tentativo di avvelenare i pozzi, ma solo per denunciare il trattamento subito dal Paese che ho servito per anni». Pittelli parla di «annichilimento» dei suoi diritti. Parla di «falsi» contenuti nell’inchiesta a suo carico, ma «non ho mai scritto – dice – sotto e per visioni complottistiche ed immaginarie. Non sono un folle immaginario e le mie parole saranno pietre in questo processo». Pittelli racconta di «un terrificante dolore» per «essere imputato in questo processo». E ancora: «Vi è una visione delle cose diversa, alla mia età, data dall’esiguità del termine che resta da vivere. Io avrei pervertito la mia vita?! Insozzato la toga di mio nonno per interessi di soldi e di mafia?! Da qui il grido di dolore esternato ad un’amica, Mara Carfagna, e francamente non capisco come lo stesso Tribunale possa ritenere di essere potenziale vittima di un inquinamento».


«La mia vita data in pasto»

Dal 19 dicembre 2019 – prosegue – «io esisto solo negli atti giudiziari e nei resoconti giornalistici. Si è fatto strame della mia vita, della mia professione e della mia famiglia, con una campagna di stampa senza precedenti, ma nessuno ha mai voluto o potuto ascoltare la mia versione dei fatti». E ancora: «Il pm non mi ha mai ascoltato, non mi ha mai ascoltato neppure il giudice delle indagini preliminari, nonostante la Cassazione abbia spazzato via il 90% delle accuse a mio carico. Nel frattempo veniva pubblicato di tutto». Pittelli fa anche riferimento alle sue «personali perplessità» espresse «ad un collega sulla morte di David Rossi». E ancora: «Mi è stata tolta la pelle, mi è stata strappata la carne. Nel nome del diritto di cronaca la mia vita è stata data in pasto all’opinione pubblica, che l’ha voracemente divorata. Sono stati messi in campo fatti falsi, rispetto ai quali qualcuno aveva il dovere istituzionale di difendermi anche rilevando circostanze a me favorevoli, cercando riscontri che avrebbero smentito tutto».

La massoneria e la politica

Entrando nel merito delle contestazioni, Pittelli rammenta: «Avete le intercettazioni, gli audio, i verbali dei collaboratori di giustizia, la decisione della Cassazione, quello che non avete sarà prodotto dai miei difensori». E poi: «Muovo dalla massoneria che tanto ha impegnato i collaboratori di giustizia. Nel 1983 l’avvocato Ernesto D’Ippolito mi propose la candidatura al Parlamento e l’affiliazione alla loggia massonica da lui presieduta. Rifiutai la candidatura, ma accettai l’iscrizione alla massoneria. Nella loggia di D’Ippolito erano iscritti molti medici, professionisti, docenti universitari. Col tempo mi accorsi che non era per me e non riuscivo a frequentare ogni mercoledì. Fino agli anni ’90 frequentai pochissimo, ma non partecipai mai ad eventi e convegni pubblici. Fin dai primi anni ’90 mi dedicai solo al lavoro e alla politica». Pittelli racconta così la sua carriera politica, fino a quando, nel 1999 Forza Italia gli propose la presidenza della Regione Calabria. «Ma rifiutai – dice – e proposi Giuseppe Chiaravalloti. Dopo la sua nomina divenni presidente del Cda della Sacal, poi mi candidai alla Camera nel 2001. Quindi rimasi dal 2001 e dal 2013, tra Camera e Senato. Dagli anni ’90 non sono stato più iscritto alla massoneria. A me la massoneria non ha mai dato nulla, così come la politica, neppure quando il mio presidente della Regione distribuiva centinaia di migliaia di cause».

De Magistris e la massomafia

Altro passaggio chiave: «Come nasce il termine massomafia? Nel 2005 iniziò un durissimo scontro tra me e l’allora pm de Magistris di Catanzaro. Non per colpa mia. Lo scontro avveniva non nelle aule dove doveva difendere le sue improbabili indagini, ma sui giornali e nei dibattiti televisivi. Ogni giorno i giornali scrivevano di manette da scattare. Io così scrissi un esposto contro de Magistris, quando indagò dei magistrati di Potenza. De Magistris aveva scritto un capo di imputazione che era da denuncia. De Magistris in risposta mi mandò una informazione di garanzia per violazione della Legge Anselmi, non per mancanza di indizi per ma infondatezza della notizia di reato». Più avanti: «Non pago mi accusò di collusione con i giudici di Catanzaro e sostenni dodici anni di processo a Salerno, dove fui rinviato a giudizio dalla cognata di Michele Santoro il quale a sua volta ospitava De Magistris in televisione. Assoluzione perché il fatto non sussiste. Fu allora che de Magistris coniò il termine massomafia. Dovunque, per dodici anni parlò di questo e si fece le sue campagne elettorali su questo. Qui nasce il mito di Pittelli massomafioso, capace di aggiustare i processi. Ecco dove i pentiti lo hanno sentito. C’è da vergognarsi nel sentire le parole di Virgiglio o Mantella, durante il controesame dei miei avvocati. Se il gip avesse letto le carte, non avrebbe scritto che i fatti di Salerno rappresentavano l’identità del mio essere».  

La massoneria e le raccomandazioni

Ancora Giancarlo Pittelli: «Ho fatto parte della massoneria, riscrivendomi dopo 27 anni. Parlo della massoneria ufficiale, Grande Oriente d’Italia. Appartenenza lecita. Non mi sono mai arricchito. Una sola volta mi sono rivolto ad un vertice massonico, Leo Taroni, per una truffa da me subita, a Ravenna. Non ebbe alcun effetto. Neppure dopo la mia reiscrizione alla massoneria ho frequentato qualcuno. Avete la trascrizione delle mie giornate. Io ho raccomandato migliaia di persone. Mia figlia studiava alla Luiss, vi sfido a individuare una sola raccomandazione a suo favore, eppure, forse, qualche conoscenza l’avrei avuta per arrivare ai suoi professori. Ma non l’ho fatto». E ancora: «La Procura di Salerno ha disposto l’archiviazione per la vicenda Petrini, eppure mi ha perfino intercettato in carcere mentre ero in isolamento. Dovrà venire in aula, Petrini, a chiarire le sue calunnie».

I pentiti e Luigi Mancuso

Pittelli parla anche di «pettegolezzi carcerari e giudiziari» facendo riferimento alle dichiarazioni dei pentiti che sono divenute «il fulcro dell’accusa a mio carico». E poi: «Io che mi permetto di accettare una raccomandazione per un giudice civile che neppure conosco?! La dottoressa Ranieli? Come ho sentito stamattina?!». Quindi aggiunge: «Per Mantella tutto questo, la massoneria, i processi aggiustati, la casa in Austria con le placche in oro, torna cinque anni dopo l’inizio della collaborazione, dopo che sono stato dato in pasto all’opinione pubblica. Perché lui ha capito chi è il vero obiettivo di questo processo. Ma le sue pomposità sono state già clamorosamente smentite». Quindi i rapporti di Pittelli con il boss Luigi Mancuso: «Lo difesi per la prima volta nel 1981, davanti al Tribunale di Crotone. Fino al 2007 l’ho difeso in numerosi processi, avendo con lui un rapporto frequente, ovviamente professionale e carcerario. Con lui ho avuto un rapporto di grandissimo rispetto e mai Luigi Mancuso mi ha mai chiesto qualcosa di illecito e di questo devo dargliene atto. Nel 2007, mentre era detenuto a L’Aquila, mi revocò la nomina per un banale screzio dovuto a ragioni professionali. Si rivolse al professor Nico D’Ascola. Io fino al 2007 di lui conoscevo tutto, in forza di un rapporto consolidatosi in quarant’anni di lavoro».

La Trust Plastron

Nel 2011, attraverso un collega, Mancuso gli inviò i saluti dal carcere a cui Pittelli rispose con un biglietto di saluto, conservato e poi sequestrato dal Ros il 19 dicembre 2019: «Poi basta. Nel febbraio 2016 riprendiamo i rapporti. Il 9 febbraio arriva una telefonata da Giovanni Giamborino che non sentivo da almeno quindici anni. Prende un appuntamento e viene con Pasquale Gallone che oltre i convenevoli non pronunciò neppure una frase. Giamborino dopo i convenevoli mi disse che era stato incaricato da un professionista vibonese di nome Basile per il recupero di un credito risalente al 2005 e abbondantemente prescritto, di assoluta origine lecita. Nel 2005 dovevo aprire uno studio associato a Roma, il professionista vibonese aveva effettuato alcuni lavori di ristrutturazione ed adeguamento. Io avevo saldato diverse somme attraverso Domenico Salvatore Galati, già mio collaboratore parlamentare. Quando scattano le indagini di De Magistris tutti scappano ed io resto col cerino in mano, con lo studio a Roma e tutto il resto da pagare. Basile sosteneva di avanzare non solo i soldi per i lavori fatti a mio conto, ma anche la somma di un certo Di Sora, ex socio, che avrei dovuto saldare io. Basile viene a chiedermi i soldi non da professionista a professionista, ma mandando Giamborino, gente che difendo e con la quale non ho altro da spartire». Sempre Pittelli: «Io rimasi indignato con Basile e non volli più incontrarlo. C’è una intercettazione con Domenico Galati che lo dimostra. E solo in seguito emerge che c’era anche un interesse di Giamborino ed io mi impegnai a pagare quello che Basile pretendeva, nel giusto, per le opere fatte a Roma». Più avanti: «Molto tempo dopo incontrai Basile, con un conto di oltre 200.000 euro, che io non ritenni congrua, ma lui pretendeva almeno 50.000 o la metà. Dissi comunque che avrei onorato l’impegno assunto».

I rapporti ricuciti

Quell’occasione fu propizia a Giovanni Giamborino per proporre a Pittelli di «ricucire con Luigi Mancuso, cosa a cui aderì subito essendo stato un cliente a cui mi ero molto dedicato in passato». In quel periodo Mancuso era irreperibile: «Giamborino mi accompagna a Limbadi, chiarisco il dissidio con Mancuso avuto nel 2007 e decidiamo di riprendere i rapporti professionali. Tornavo così ad essere il suo difensore. Gli raccontai il fatto di Basile e lui mi disse che di Basile non gli importava assolutamente nulla e che non erano fatti che lo riguardavano, ma io gli confermai che lo avrei pagato comunque, nel giusto ma lo avrei pagato. Io raccomandai a Giamborino di prestare attenzione, ma questo fatto veniva ricondotto alla mia presunta indole mafiosa, ma qualunque avvocato che ha colloqui leciti con latitanti o irreperibili che difende, non vorrebbe che il suo assistito fosse arrestato in ragione di un incontro con il suo difensore. Da Mancuso ci sono stato cinque o sei volte, ma mai ho parlato con lui di verbali di collaboratori di giustizia. Voi avete una mia intercettazione di un incontro a cui partecipa anche Saverio Razionale, eppure nel momento che dovrebbe essere di massima fibrillazione per la presunta organizzazione mafiosa, non si parla di pentiti, vi siete chiesti come mai?». E poi un particolare: «Da Mancuso, a casa, andai a portare un libro, su mandato del vescovo di Catanzaro. Un libro sulla scomunica dei mafiosi. Porta la dedica fatta ad un’altra persona perché le copie del vescovo erano finite, ma lo potete trovare tranquillamente a casa di Mancuso. E lui, Mancuso, quando me lo portò, mi disse: “Avvocato, voi avete scelto la vostra strada. Il vescovo la sua strada. Io ho scelto la mia”».

Le preoccupazioni

Altro capitolo delle sue dichiarazioni spontanee, i rapporti con l’ex agente dei servizi, già tra le fila della Direzione investigativa antimafia Michele Marinaro, anch’egli imputato: «Un giorno mi disse che un magistrato della Procura, di cui non farò mai il nome, gli riferì di non frequentarmi più. Capite bene la mia preoccupazione, che aumenta in una fase in cui il vescovo di Catanzaro aveva un progetto politico per la Calabria. Mi chiamò e ci andai con un elenco di circa 250 nomi di galantuomini e gentildonne. Di questa cosa ne parlai con Paolo Pollichieni, che gestiva questo progetto insieme al vescovo, in una intercettazione che noi produciamo, ma è strano che solo questo colloquio sia stato censurato tra le migliaia di conversazioni avute con Pollichieni, nella quale egli mi dice che il collega Staiano era stato iscritto sul registro degli indagati, ben prima che Staiano sapesse di essere indagato. Nella stanza del vescovo Pollichieni mi disse che io ero indagato, perché avevo detto o scritto ciò che non dovevo dire o scrivere. Pollichieni mi disse che l’operazione sarebbe scattata nel novembre 2018 e non avvenne. Nel gennaio del 2019 mi disse, sempre Pollichieni, che era stata depositata una informativa che mi riguardava e che non ero più gradito nel progetto del vescovo perché massone deviato e amico dei Mancuso. Dal gennaio e febbraio 2019 io non sono più in me e su un foglio iniziai ad appuntare tutto su un foglio di carta intestata. Io andai più volte dal vescovo che chiamò anche un magistrato, poi alla fine si strinse nelle spalle e non andai più da lui. Sin dai mesi successivi, nella clientela vibonese c’era una evidente fibrillazione per le dichiarazioni, note, di Mantella e Moscato. Poi il presidente del Tribunale fece affiggere una comunicazione nel quale rese noto di aver esentato il giudice Saccà perché impegnata a scrivere una ordinanza che avrebbe riguardato 300 persone. A fare il paio…».

Gli appunti poi sequestrati

A questo punto, Pittelli spiega tutto ciò che scrisse su quel foglio con carta intestata del suo studio che la notte dell’arresto gli fu sequestrato dal Ros e che svelerebbe, secondo l’accusa, come egli fosse stato a conoscenza dei dettagli dell’indagine che lo riguardavano, prima del blitz: «Ho scritto nel tempo tutto quello che mi veniva nella testa e che poteva riguardarmi, solo perché ero preoccupato e perché cercavo di capire». Pittelli chiarisce anche come su quell’appunto vi siano di fatto trentasette annotazioni delle quali «solo sei avrebbero a che fare con questo processo».

I verbali di Mantella

La chiusura è dedicata ai verbali di Mantella: «Io sono cautelato solo per questo. Per aver disvelato a Luigi Mancuso i verbali di Mantella ed è un falso macroscopico, volgare, che non ha precedenti. Io non ho mai parlato di verbali integrali, letti, visti o dei quali ho avuto conoscenti. Ho sempre parlato di verbali omissati che avrebbero provocato un macello. C’erano moltissime pagine omissate e tantissimi nomi. Pagine vuol dire fatti, episodi, non solo nomi. Si parla di episodi non trascritti perché oggetto di indagini. Da qui la mia prima deduzione che i collaboratori, Mantella, Moscato, Mancuso, avrebbero parlato di persone e di fatti ancora oggetto di indagine. Mai letto, sbirciato, guardato, mai commesso atti illeciti. Ma questi benedetti verbali come e da chi sono stati consegnati e fatti leggere?». E ancora: «È stata introdotta una intercettazione che rappresenta un clamoroso falso. Io il 12 settembre del 2016 avrei detto a Giamborino che Mantella aveva scritto una lettera alla madre che accusava il fratello. Dico a Giamborino “Dicono…”. I miei difensori hanno depositato un quotidiano che due mesi prima aveva riportato la lettera alla madre. Resta il dettaglio del fratello. Ma come avrei potuto leggere il verbale e sapere dell’accusa al fratello se l’accusa al fratello è successiva al 12 settembre 2016? Il mio sapere era di dominio pubblico, da settimane se non da mesi». Sempre Pittelli: «In un altro colloquio, Giamborino dice che solo la Dia “lo da a quello”, ovvero a Pittelli, ma nell’audio non c’è questo: si dice “lo dà a quelli”, riferendosi agli avvocati lametini e catanzaresi. Poi il 19 novembre 2016, io dico a Giamborino che mi sta accompagnando da Luigi Mancuso “Si sta rovinando, hanno scritto i giornali che è latitante, deve andare a costituirsi”. E lì gli dicevo che non sapevo nulla, assolutamente dei verbali. E lì viene aggiunto un avverbio, cioè, “ancora”, quasi a voler dimostrare che fossi ancora alla ricerca dei verbali. Un falso, un clamoroso falso».

Giornalista
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