’Ndrangheta

Il super pentito Pasquino racconta il boss Franco D’Onofrio: «Sembra un avvocato ma è un criminale. E quando lo scopri è troppo tardi»

Nell’inchiesta della Dda di Torino spuntano i verbali del broker sul boss di Carmagnola: «Fa parte del Crimine di Torino». Il processo Minotauro e il permesso per poter chiedere all’abbreviato. Il ruolo di Serratore come «braccio diretto» del boss e la "scalata" della famiglia Crea in Piemonte

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di Alessia Truzzolillo
26 settembre 2024
08:31

«Il fatto che Franco D'Onofrio rappresenta Torino lo so perché l’ho frequentato, ed è noto in quanto ha una storia che fa paura in quanto uomo d'azione. Io l'ho sempre rispettato, e l'ho incontrato diverse volte quando accompagnavo Mico Alvaro a parlare con lui. in quel periodo, ovvero nel 2012/2014, Alvaro portava rispetto soltanto ad Antonio Agresta classe 1960 ed a Franco D'Onofrio, che non è uno che si sedeva a tavola con tutti» anche perché «Franco D'Onofrio fa parte del Crimine di Torino, assieme ad altri soggetti di spessore…». A parlare di D'Onofrio, presunto boss atipico con un passato ai margini dell'estremismo di sinistra, è il super pentito Vincenzo Pasquino. Il "capo" di Carmagnola, è una figura chiave dell'inchiesta Factotum della Dda di Torino, che ha (ri)acceso i fari sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Piemonte.  

Storia criminale di Vincenzo Pasquino

Ventiquattro maggio 2024. Davanti agli inquirenti siede il collaboratore di giustizia Vincenzo Pasquino, 34 anni. L’età non inganni, non è uno qualunque. Dal 2012 al 2017 ha fatto parte del locale di Volpiano, Comune della città metropolitana di Torino, riconducibile alla famiglia Agresta, capeggiata da Antonio Agresta, 64 anni. L’affiliazione, però, risale al 2011 con la famiglia Alvaro che è una ramificazione a Chivasso della cosca reggina di Sinopoli. Ma quando Domenico Micu Alvaro esce, nel 2013, dalla semilibertà si «perde» e Pasquino si avvicina agli Agresta.


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Giovanissimo si inserisce nelle dinamiche relazionali con diversi esponenti di strutture ‘ndranghetiste: oltre agli Alvaro e agli Agresta ci sono i Crea, del locale di San Mauro Torinese, i Gallace, i Vitale, i Nirta. Si distingue come broker e diventa punto di riferimento delle cosche calabresi al nord per il narcotraffico. Nel 2017 va e viene dal Brasile per conto della ‘ndrangheta, qui si trasferisce definitivamente nel gennaio 2018 ed è sempre qui che viene arrestato per essere poi estradato in Italia. Il sette maggio scorso ha cominciato a rendere i primi verbali alla Dda di Reggio Calabria.

A giugno le sue dichiarazioni sono state messe agli atti del processo Eureka, sui traffici nel porto di Gioia Tauro.

«D’Onofrio rappresenta Torino»

Ora, per la prima volta, contribuisce al costrutto accusatorio che lo scorso 24 settembre – con l’operazione Factotum – ha portato al fermo di sei persone ritenute organiche alla cosca di Carmagnola comandata da Franco D’Onofrio.
Il periodo di riferimento rispetto al quale Pasquino sviscera i suoi ricordi va dal 2012 al 2017.
L’ex broker parla delle origini vibonesi di Franco D’Onofrio, anche se il capo cosca «attiva a Torino quando si trova lì». Per «attiva» Pasquino intende che «lui è definitivo lì e lui rappresenta Torino».

Serratore «braccio diretto di D’Onofrio»

A Mocalieri, dove D’Onofrio abita, ci sono anche due cugini Bonavota che «attivano» con lui, mentre, dice Pasquino, Antonio Serratore è il suo «braccio diretto» e, per quanto riguarda le armi che sono state trovate in possesso a Serratore, Pasquino è sicuro che le detenesse per il suo capo che è solo e unicamente Franco D’Onofrio. È sempre Serratore che gestisce gli appuntamenti di D’Onofrio: «Quando noi volevamo un appuntamento con D’Onofrio, chiamavamo Antonio. Antonio ci mandava un'ambasciata e ci diceva: "venite a questo bar o a quest'altro bar, ho visto dei movimenti sospetti”».

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I rispetti al capo cosca e il permesso per fare l’abbreviato

Nel 2012, dopo l’operazione Minotauro, Franco D’Onofrio – un passato ai confini dell'estremismo di sinistra – si trova al carcere Le Vallette, nel blocco A. Nel blocco C, invece ci sono Pasquino (arrestato per rapina) con esponenti degli Agresta e i Crea. La fama di D’Onofrio lo precedeva: era conosciuto dai racconti che si facevano di lui – «Già i miei familiari mi parlavano di D’Onofrio da quando ero giovane, mi parlavano di Franco D'Onofrio che era un azionista» – così i giovani gli mandano i loro rispetti nascosti nel porta vitti: «le torte dal blocco C le mandavamo al blocco A».

Pasquino ricorda che il carcere era in mano loro e su tutti comandava D’Onofrio.
Anche per prendere una decisione di tipo processuale bisognava chiedere il permesso. Così, tutti quelli del gruppo Crea coinvolti nel processo Minotauro, quando decisero di chiedere l’abbreviato, «hanno mandato un’ambasciata a Franco D’Onofrio in carcere per chiedere il permesso». Allo stesso tempo «per il patteggiamento, tutti quelli di Platì hanno mandalo l’ambasciata a Platì e a Milano per fare il patteggiamento. In un processo così importante non si poteva patteggiare senza autorizzazione».

Il «criminale» che «sembrava un avvocato»

L’ex broker racconta che la cosca di D’Onofrio si manteneva con estorsioni, protezione alle aziende e cliniche e che l’abilità di D’Onofrio veniva fuori quando parlava con gli imprenditori. «Sembrava un avvocato – dice il collaboratore – sapeva porgersi, me lo hanno detto cristiani. Si presentava bene, si muoveva bene con gli imprenditori ma poi era un criminale, solo che quando gli altri se ne accorgevano era troppo tardi».

Il Crimine

Vincenzo Pasquino racconta che Franco D’Onofrio sedeva nel Crimine. Agli inizi il Crimine lo aveva Natale Romeo, capo locale di San Giusto Canavese, uno che, dice il pentito, «ha ancora i fogli storici della ‘ndrangheta nei muri». «Non si muoveva una foglia se non passava da lui». Poi sono arrivati i Crea che «si sono azziccati tutte le bande ed hanno preso il Crimine loro» grazie anche a un’autorizzazione che arrivava da Polsi. I Crea – dice Pasquino – arrivati perché scappavano dalla faida che che si era creata in Calabria, a Stilo, «pagavano i Pelle per poter arrivare al Crimine».

Al contrario, Domenico Alvaro non era - spiega Pasquino - nel crimine di Torino ma in quello calabrese. Alvaro era uno che se parlava di ‘ndrangheta la definiva, in gergo, “pidocchia”. In carcere Micu Alvaro avrebbe detto: «Se i Crea hanno le chiavi di Torino, quando io esco faccio il Papa».

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