'Ndrangheta stragista, il pentito: «Il giudice mi disse di non parlare di Filippone»

Pino Scriva depone al processo per l’omicidio dei carabinieri: «Capii che Filippone poteva dormire sonni tranquilli. Il giudice disse: 'È amico di un mio amico di Reggio'». E aggiunge che l’imputato diede appoggio a diversi latitanti. La ‘ndrangheta? «Fui io a dire che si chiamava così»

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di Consolato Minniti
2 luglio 2018
11:29

«Se si chiama ‘ndrangheta è perché l’ho detto io». Così si è espresso lo storico pentito Pino Scriva al processo “’Ndrangheta stragista”, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. La famiglia Scriva, come riferito dallo stesso collaboratore di giustizia, comandava sul territorio di Rosarno. La deposizione è stata caratterizzata da diversi problemi di natura tecnica, che hanno creato non poche difficoltà nel poter ascoltare le parole di Scriva che ha addirittura affermato di non ricordare di aver reso dichiarazioni e difatti non ha ricordato che parte delle cose dette. Tuttavia, anche con il consenso delle difese, sono state acquisite agli atti proprio le dichiarazioni del collaboratore, rese il 4 giugno 2014 all’autorità giudiziaria.

Filippone “custode” dei latitanti

In quella data, Scrive riferisce ai magistrati che fra il 1969 ed il 1983 i rapporti fra ‘ndrangheta e cosa nostra erano cordiali, «ma noi eravamo una cosa e loro un’altra». Non può dire cosa sia accaduto dopo, perché inizia il suo rapporto di collaborazione con la giustizia. Il pentito spiega di aver conosciuto tutti i principali esponenti della ‘ndrangheta della zona tirrenica e anche Ionica. Da Umberto Bellocco “asso di mazzo” a Nino Pesce “testuni” («servo di Piromalli» ha riferito in aula Scriva), fino a Mommo Piromalli «il vecchio, morto nel 1979, che era il “capo dei capi” e la sua parola valeva in Calabria, in Sicilia e altrove». Poi nell’elenco delle persone conosciute appaiono anche Peppe Piromalli, Pino Piromalli “facciazza”, i Molè ed il Pesce. Arrivando alla zona di Melicucco, su sollecitazione dei pm, Scriva riporta i nomi di Pronestì e Rocco Filippone. «Entrai per la prima volta in contatto con Filippone, quando mio cugino Rocco Scriva, - ‘ndranghetista responsabile dell’omicidio di Domenico Cunzolo – doveva appoggiarsi in un posto sicuro per trascorrere la latitanza. Per tale ragione mio padre Francesco Scriva, mi disse di portare mio cugino Rocco da Filippone. Questi aveva la disponibilità di una abitazione (non so se fosse sua o meno) nel comune di Anoia vicino a Melicucco. In questa casa trascorsero la latitanza non solo mio cugino Rocco, ma anche Domenico Maesano e Giuseppe Rotolo di Rizziconi, compaesano del primo. Constatai la presenza di questi ultimi proprio accompagnando mio cugino in questa abitazione di Filippone che a sua volta abitava dalle parti di Melicucco in un’altra casa». Dopo dieci anni circa, Scriva era latitante e, constata la disponibilità di Filippone, trascorse circa nove mesi della sua latitanza «appoggiandomi a Rocco Filippone che mi teneva in una masseria di campagna poco prima di Melicucco. Passavamo molto tempo insieme nel senso che lui mi accompagnava nei miei spostamenti».


Il giudice mi disse: Filippone è amico di un mio amico

«Voglio precisare – riferisce Scriva ai magistrati – un particolare su Rocco Filippone: non è la prima volta che parlo di lui, feci il suo nome indicandolo come ‘ndranghetista all’allora Procuratore di Palmi, dottor Giuseppe Tuccio. Quando questi sentì questo nome, mi guardò e mi disse “Rocco Filippone è amico di un mio amico di Reggio Calabria”. Capii al volo che Rocco Filippone poteva dormire sonni tranquilli ed in effetti non solo non è mai stato processato negli anni a seguire per reati associativi legati alla ‘ndrangheta, ma non fu scritto neanche il suo nome nel verbale redatto dal dottor Tuccio, in occasione dell’interrogatorio che io resi al predetto negli anni 1983-1984 presso la Caserma dei carabinieri di Tropea. Durante la mia latitanza ho visto che Filippone disponeva di armi, in particolare sia armi lunghe che corte». Nel corso dell'udienza odierna, Scriva ha aggiunto che il magistrato gli disse di «non fare quel nome, lasciarlo stare».

Salta la deposizione di Tripodoro

«Non sento bene. Possibile che non ci sia un paio di cuffie per ascoltare bene?». Inizia e finisce in pochi istanti la deposizione del pentito Pasquale Tripodoro, collegato da un sito riservato. Avrebbe dovuto deporre al processo “’Ndrangheta stragista”, riferendo delle dichiarazioni rese già all’autorità giudiziaria in merito alle riunioni fatte in Calabria per pianificare gli attentati ai carabinieri. Il collaboratore di giustizia, capo del locale di ‘ndrangheta di Rossano, non è stato in grado di ascoltare correttamente le domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. Con l’accordo della difesa, sono state acquisite le dichiarazioni di Tripodoro, rilasciate ai magistrati il 29 gennaio 2014.

Le dichiarazioni di Tripodoro a verbale

In quell’occasione, Tripodoro disse di conoscere Luigi Mancuso. «Andai a trovare Mancuso con Santo Carelli, che per la verità era proprio lui che doveva incontrarsi con Mancuso. Era il periodo 1992-1993. Quando andavo a Reggio Calabria incontravo i Tegano, in particolare Domenico (Mimmo) e Pasquale. Costoro ci dissero che, contrariamente a quanto detto da Cirillo, capo locale della Sibaritide, il nostro locale di Rossano non era stato riconosciuto da Crimine». Tripodoro, nelle sue dichiarazioni, ricorda che «Carelli e quelli di Cirò – e cioè i fratelli Farao e Marincola – si recarono ad una riunione molto importante, se non ricordo male a Gioiosa Jonica, ed al ritorno mi fu detto che si era parlato del fatto che si dovevano fare degli attentati alle caserme dei carabinieri. Non riesco a collocare il periodo di questa riunione. Comunque più o meno all’epoca degli attentati a Falcone e Borsellino potrebbe essere un po’ prima o un po’ dopo». Tripodoro aggiunge che dal racconto di Carelli capì «che si trattava di una riunione che vedeva presenti molti capi della ‘ndrangheta anche della provincia di Reggio Calabria, anche perché, altrimenti, non avrebbe avuto senso una riunione in quelle zone così distanti dalle nostre. Erano stati i siciliani a richiedere questa nostra azione di tipo terroristico». Tripodoro, però, nulla sa circa gli attentati ai carabinieri Fava e Garofalo, né dell’attentato alla caserma dei carabinieri di Isola Capo Rizzuto». Quanto ai rapporti con la ‘ndrangheta reggina, Tripodoro ricorda che «la famiglia De Stefano era importantissima per noi. Per me Paolo De Stefano era un padre. Intendo dire che lo portavo anche nella mia copiata per diventare “Vangelo”. Archi era considerato il fulcro, una “potenza” della ‘ndrangheta, un punto di riferimento per noi. I nostri riferimenti erano i fratelli “Tegano”. Sapevamo però che i Tegano erano a loro volta legatissimi ai De Stefano, che a loro volta erano i referenti i Cirillo».

 

Consolato Minniti

Giornalista
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