Il 19 luglio 1992 una Fiat 126 imbottita di tritolo esplose in via D’Amelio a Palermo, uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Sono passati 33 anni, ma quella strage rimane ancora una ferita aperta nella storia del nostro paese.

Borsellino sapeva che il suo destino era segnato. Aveva lottato fianco a fianco con Giovanni Falcone ed insieme hanno lottato disperatamente contro la criminalità organizzata, contro una mafia spietata che all’epoca mise in ginocchio la Sicilia e l’intero paese.

Dopo l’attentato di Capaci del 23 maggio 1992, dove Falcone fu ucciso insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Montinaro, Dicillo e Schifani, Borsellino aveva capito che prima o poi sarebbe giunto il suo momento. Il suo destino qualcuno lo aveva già deciso. E lo Stato, le istituzioni non riuscirono a difendere questi valorosi magistrati in prima linea contro le mafie. Ma aveva scelto di non tirarsi indietro. Continuò a lavorare, a cercare la verità, a servire lo Stato. Fino al giorno in cui Cosa Nostra decise di fermarlo.

Oggi in troppi non ricordano più quello che è successo in questo nostro paese dagli anni ‘70 in poi.

La lunga lotta dello Stato contro le mafie è costellata di nomi e volti che meritano di essere ricordati, perché siano di esempio a tutti. Come Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei Carabinieri, prefetto di Palermo, assassinato il 3 settembre 1982 con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. Dalla Chiesa aveva intuito prima di altri che la mafia non era più solo lupara e pizzo, ma finanza, potere, collusione. E pagò con la vita.

Come non ricordare Rosario Livatino, “il giudice ragazzino”, ucciso nel 1990 lungo la statale 640 mentre si recava in tribunale da solo, senza scorta. O Antonino Scopelliti, magistrato calabrese, assassinato brutalmente. E ancora Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo, ucciso nel 1980 per strada.

Accanto a loro, decine e decine di uomini delle forze dell’ordine: agenti, carabinieri, finanzieri, poliziotti. Anche alcuni esponenti politici nel sud hanno lottato e pagato con la vita. Citiamo per tutti Piersanti Mattarella: Presidente della Regione Siciliana, ucciso il 6 gennaio 1980. Pio La Torre: Segretario regionale del PCI siciliano, ucciso il 30 aprile 1982.

Ma sono stati in tanti a cadere vittime della mafia, anche tanti cittadini onesti che non si sono fatti intimidire, e molti imprenditori che non hanno piegato la testa davanti ai ricatti. Tutti uniti da un unico filo: la fedeltà al dovere, al Paese, alla giustizia.

Oggi, ricordare Borsellino non significa solo deporre una corona di fiori o pubblicare un post. Significa fare memoria, ricordare, consegnare alle nuove generazioni una storia di sangue e di violenza. Che deve servire da insegnamento, perché tutti comprendano quanto sia importante, combattere le nuove mafie, più silenziose ma altrettanto pericolose. Significa non accettare ambiguità, non tollerare collusioni, denunciare, costruire la cultura della legalità vera, non a chiacchiere, non per mettersi in mostra, non per costruire un’immagine o una carriera. Perché di presunti combattenti delle chiacchiere, il sud ne ha visto tanti. E la Calabria ancora di più.

Non abbassiamo mai la guardia deve essere un monito e un impegno. Per la politica, per le istituzioni.

Di quel terribile 19 luglio 1992, ci resta la voce ferma di Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola».