Venerdì 14 e domenica 16 novembre, il Teatro Rendano di Cosenza si è fatto scrigno di un evento che, per imponenza e compiutezza estetica, resterà a lungo impresso nella memoria della città: la Carmen di Georges Bizet, rappresentata nel duplice anniversario dei centocinquant’anni dalla prima esecuzione e dei centocinquant’anni dalla morte del compositore, quasi a suggellare, con un’aura di ritualità laica, il permanere dell’opera nel canone lirico europeo. Il capolavoro di Bizet, nato dal libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, continua infatti a vibrare della sua forza immaginifica: un racconto di libertà e di perdizione, di eros e disillusione, costruito intorno al magnetismo tragico della protagonista, figura femminile che ancora oggi incarna un’idea di indipendenza radicale, “selvaggia”, irriducibile ai codici morali del proprio tempo.

Un allestimento monumentale, di squisita eleganza scenica

Ciò che si è visto al Rendano è stata una produzione magistrale, un allestimento che nulla ha avuto da invidiare ai grandi teatri d’opera italiani ed europei. La regia di Paolo Panizza si è distinta per una raffinatezza visionaria e al contempo disciplinata, per una capacità quasi calligrafica di comporre sulla scena quadri di sorprendente equilibrio, dove ogni gesto, dal più impercettibile movimento corale alla più drammatica interazione fra i protagonisti, sembrava rispondere a una logica interna organicissima, quasi musicale. Panizza ha orchestrato l’azione scenica con un gusto impeccabile, conferendo all’intero spettacolo una densità teatrale che raramente si incontra: nulla di superfluo, nulla di ridondante, e al tempo stesso una sontuosa, opulenta pienezza visiva.

Le scene e i costumi di Antonio De Lucia hanno compiuto il resto: atmosfere avvolgenti, di un realismo poetico capace di trasportare il pubblico in una Spagna immaginata ma pulsante, dove il chiaroscuro delle passioni — gelosia, desiderio, vendetta — prendeva corpo attraverso stoffe, architetture, cromatismi sapientemente calibrati. Era come se il palcoscenico respirasse un’aria calda e polverosa, quella stessa che abita i vicoli di Siviglia e la vita tumultuosa di Carmen.

Le luci, nuovamente di Paolo Panizza, hanno completato il lavoro con una perizia davvero meticolosa, cesellando la scena con bagliori ora crepuscolari, ora incendiati, ora intimistici: tratti luministici che sembravano tradurre visivamente le inquietudini psicologiche dei personaggi.

Il tutto è stato armonizzato sotto la direzione artistica di Chiara Giordano, che ha saputo guidare il progetto con un rigore progettuale e una cura estetica ammirevoli.

La musica come architettura sonora: una direzione imponente

Al centro della serata, imponente e quasi titanica, l’Orchestra Sinfonica Brutia, in stato di grazia, possente e sensibile al tempo stesso. La bacchetta di Marco Codamo ha compiuto un lavoro di rara finezza: una direzione monumentale, che ha retto per quattro ore senza un solo cedimento di tensione espressiva, scolpendo con minuzia ogni dinamica, ogni fraseggio, ogni timbro. Il maestro Codamo ha ottenuto un suono corposo, e soprattutto una coerenza narrativa che ha attraversato l’opera dall’ouverture fino all’inesorabile finale.

L’orchestrazione — così come ripensata, calibrata, resa più che mai trasparente — ha restituito quella miscela di sensualità esotica e tragedia che costituisce la cifra identitaria di Bizet.

La danza come presenza drammaturgica

Scelta particolarmente riuscita la presenza costante dei danzatori della Compagnia Create Danza, disseminati in scena con una regia che li ha voluti quasi “ovunque”, a incarnare ora l’energia carnale dei cori popolari, ora l’ombra incombente del destino.

I quindici danzatori e mimi, di cui quattro solisti — Carola Puglisi, Alessandra Nicoletti, Francesco Rodilosso e Filippo Stabile (quest’ultimo anche coreografo delle parti danzate) — hanno fornito una prestazione straordinaria, sinuosa, vibrante, tecnicamente impeccabile.

Le coreografie di Elisa Barucchieri hanno saputo innervare la drammaturgia con una vitalità coreutica raffinata, mai decorativa, anzi profondamente integrata ai moti dell’anima dei personaggi.

Le voci: un trionfo di interpretazioni

La duplice Carmen ha offerto al pubblico due letture diverse ma ugualmente convincenti del personaggio. Nella recita del 14 novembre, il mezzosoprano Alessandra Volpe ha donato alla protagonista una vocalità calda, voluttuosa, magnetica, ricevendo in sala un apprezzamento unanime. La sua Carmen era una creatura di fascino indomito, intensa e mai caricata.

Nella recita del 16 novembre, il testimone è passato al mezzosoprano Irene Molinari, padrona assoluta della scena, interprete di un’eleganza scenica ferma e ironica, al contempo composta e provocatoria, perfettamente in linea con l’indole poliedrica del personaggio bizetiano.

A fronteggiarle, in entrambi gli spettacoli, il tenore Paolo Lardizzone, un Don José di voce sontuosa, squillante, luminosa nelle ascese e splendidamente sfumata nei passaggi lirici, capace di rendere palpabile la progressiva frattura psicologica del personaggio, il suo scivolare nel gorgo della gelosia.

David Babayants, nel ruolo di Escamillo, ha offerto un’interpretazione di grande presenza scenica, solida, carismatica, sostenuta da una vocalità profonda, rotonda, virile, perfettamente aderente alla figura del torero.

Il soprano Francesca Manzo ha delineato una Micaëla luminosa, eterea e al tempo stesso vigorosa, con una vocalità cesellata nei dettagli, mentre Laura Esposito, nel ruolo di Frasquita, ha brillato per vivacità timbrica, precisione impeccabile e una resa scenica semplicemente incantevole.

Lucrezia Ianieri, interprete di Mercédès, ha portato in scena una presenza agile, elegante, sonoramente tersa, degna dei ruoli comprimari più raffinati.

Il giovanissimo, bravissimo e bellissimo tenore calabrese Lorenzo Papasodero, nel ruolo di Dancairo, è stato un’autentica rivelazione: voce squillante ma duttile, capace di accendersi tanto nei toni luminosi quanto in quelli più scuri e vellutati, con una presenza scenica straordinaria.

Di grande livello anche il tenore Alberto Munafò Siragusa nel ruolo di Remendado: interpretazione smagliante, brillante, tecnicamente impeccabile, capace di imprimere alla scena un tocco di sottile vivacità teatrale.

Completavano la compagnia Liu Haoran nel ruolo di Moralès e Wang Xudong in quello di Zuniga, entrambi di solida efficacia interpretativa.

Coro, voci bianche e tradizione lirica

A sostenere l’impalcatura lirica, il Coro Lirico Siciliano, diretto magistralmente dal M° Francesco Costa, e il piccolo coro delle voci bianche del Teatro Rendano, guidato dalla M° Maria Carmela Ranieri: entrambi hanno offerto un supporto vocale composto e raffinato, contribuendo a creare quei momenti d’insieme che hanno culminato in numerosi applausi a scena aperta, evento ormai poco frequente nel teatro d’opera contemporaneo.

Il valore della tradizione

Ciò che più ha colpito, nell’insieme, è stata la sensazione — finalmente — di assistere a un allestimento nel massimo rispetto della tradizione lirica, fedele allo spirito dell’autore, libero da inutili stravolgimenti modernisti e coerente con la volontà drammaturgica originale.

Era da tempo che il Teatro Rendano non ospitava un’opera di così immenso valore, così integralmente compiuta, così nobile nel suo aderire ai canoni della grande opera francese dell’Ottocento.

Una nota sul pubblico

Una piccola, talvolta apparentemente banale osservazione riguarda il gusto del pubblico: il teatro, luogo sacro e custode di memorie illustri, meriterebbe una rinnovata attenzione nel modo di presentarsi. Così come si presta rispetto al Senato o ad altri luoghi istituzionali, sarebbe auspicabile recuperare un decoro dell’abbigliamento, un’eleganza che renderebbe omaggio alla dignità artistica dello spazio. Non si possono vedere persone a mezzamanica in teatro. Bisogna ritrovare il gusto e il rispetto per il luogo che si frequenta.

Pur sforzandomi di trovare un dettaglio dissonante, un punto debole, un’imperfezione di sorta, mi riesce impossibile: tutto è stato meravigliosamente bello.

L’auspicio è che spettacoli di questo livello continuino a fiorire nel nostro teatro di tradizione, perché il Rendano — quando sostenuto da una simile eccellenza — dimostra di poter essere un faro culturale autentico, degno del patrimonio operistico italiano ed europeo.