È un tema ricorrente e carico di significati simbolici: è il volto oscuro dell’Italia, la sua incapacità a dirsi davvero Nazione, la sua eterna lotta tra giustizia e compromesso
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C’è una linea narrativa di denuncia sociale fatta di parole e silenzi, che attraversa il Novecento letterario italiano e affonda le sue radici nel Sud più profondo, quello che spesso la letteratura ha raccontato con pudore o con rassegnazione. Ma ci sono autori che hanno scelto di rompere quel silenzio, facendo della mafia non solo un tema narrativo, ma un vero e proprio topos letterario di denuncia.
Tra questi, Corrado Alvaro e Leonardo Sciascia si impongono come due figure centrali, non tanto per una continuità di stile o poetica, quanto per la consapevolezza comune che la letteratura, se vuole dirsi davvero civile, non può esimersi dal confrontarsi con il potere occulto e violento che mina le fondamenta dello Stato.
Corrado Alvaro (1895-1956) calabrese, conosce la mafia da dentro, come ombra che grava sulla vita quotidiana e come sistema mentale prima ancora che criminale. Nella sua opera Il segreto del bosco vecchio si avverte già l’eco di una natura oscura, ma è ne Il paese del vento (1931) e poi nella sua celebre opera Gente in Aspromonte (1930) che emerge con chiarezza la riflessione sulla cultura dell’omertà e sull’arretratezza sociale come terreno fertile per la mafia. In quest’ultimo testo, il contadino Argirò si oppone alla violenza dei padroni con la sola forza del proprio orgoglio e della propria dignità. È una resistenza che appare destinata alla sconfitta, ma che contiene in sé un nucleo etico incorruttibile. Alvaro scrive: «La rassegnazione era la virtù dei poveri, ma in essa non c’era né pace né giustizia». È un’affermazione che suona oggi come un monito: l’accettazione passiva della sopraffazione è il primo complice dell’illegalità.
Leonardo Sciascia (1921-1989), siciliano, trasforma la mafia in metafora del potere stesso: un potere che non ha volto, che si insinua nelle istituzioni, che si nutre dell’ambiguità e della complicità dei silenzi. Ne Il giorno della civetta (1961), forse il romanzo più emblematico della sua opera narrativa, la mafia non è solo l’organizzazione criminale da combattere, ma il simbolo di un’Italia che non vuole guardarsi allo specchio. Il capitano Bellodi, forestiero e idealista, è l’unico a credere che la legge possa vincere sull’omertà, ma alla fine si scontra con una realtà immobile, che tende a difendere i propri equilibri malati. Sciascia scrive: «La mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine». È una frase divenuta celebre, eppure amaramente ironica nel contesto del romanzo, perché a quel “fatto umano” corrisponde una disumanità diffusa, che attraversa classi sociali, apparati statali, persino l’immaginario collettivo.
Entrambi gli autori denunciano non solo la mafia in quanto tale, ma soprattutto il contesto che la rende possibile. In Alvaro è la miseria, l’ignoranza, la solitudine dell’uomo del Sud; in Sciascia è l’ipocrisia della borghesia, la collusione del potere, la scomparsa dell’etica pubblica. Non si tratta di cronaca, ma di letteratura che fa inchiesta; non di semplice narrativa di ambientazione meridionale, ma di scrittura che scava nel profondo delle strutture sociali.
L’aspetto che più unisce i due autori è il rifiuto della retorica. Né Alvaro né Sciascia si illudono di fornire soluzioni semplici. Non ci sono eroi nei loro testi, ma uomini e donne che si muovono in una realtà opaca, dove spesso la verità è una colpa e la parola una condanna. In questo senso, la loro scrittura è profondamente etica: invita il lettore a non voltarsi dall’altra parte, a non accettare l’indicibile come destino.
Nel secondo Novecento, mentre l’Italia si illudeva di essersi lasciata alle spalle la questione meridionale, Sciascia continua a mettere in guardia contro le forme più sofisticate della mafia, quelle che si infiltrano nelle stanze del potere. Todo modo di Leonardo Sciascia (1974) è, in questo senso, un testo esemplare: una satira cupa in cui la religione, la politica e l’industria si confondono in una macchina di dominio che ricorda da vicino la mafia nella sua forma più moderna e inafferrabile. Il potere, ci dice Sciascia, è mafioso non perché sia direttamente criminale, ma perché si fonda sulla complicità e sul ricatto, sulla capacità di generare paura e silenzio.
Alvaro, più legato alla dimensione antropologica, guarda alla mafia come risultato della disgregazione sociale, della mancanza di alternative, della disperazione. Sciascia, invece, ne coglie la natura metastatica: la mafia come sistema di pensiero, come mentalità che si annida ovunque, anche dove si predica legalità.
In questa prospettiva, la mafia si configura come un topos letterario, cioè come un tema ricorrente e carico di significati simbolici: è il volto oscuro dell’Italia, la sua incapacità a dirsi davvero Nazione, la sua eterna lotta tra giustizia e compromesso. Sciascia e Alvaro non si limitano a raccontare la mafia: la smascherano, ne mettono in crisi le narrazioni mitiche, la riportano alla sua nuda verità di sistema, di dominio e sopraffazione.
Nel tempo della post-verità, della fiction criminale che spesso finisce per estetizzare il male, rileggere questi due autori significa tornare a una letteratura che non teme di esporsi, che non cerca consolazione ma consapevolezza. Una letteratura che ci chiede di non chiudere gli occhi, e che ci ricorda — come scrive Sciascia — che «il potere è sempre stato mafioso, anche quando non c’era la mafia».