Un racconto corale tra letteratura e vita rurale, dove il lavoro della terra e quello delle parole si intrecciavano profondamente. Come diceva Corrado Alvaro: «Tutto è pieno della Calabria: ogni pietra, ogni nuvola, ogni gesto di un uomo che tace»
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C’è una Calabria che resiste agli stereotipi, che rifiuta di essere raccontata soltanto attraverso il filtro della miseria e del ritardo. È la Calabria del primo cinquantennio del Novecento, terra di luce e di pensiero, dove la fatica si faceva dignità e la parola, respiro di popolo. Non era una regione “arretrata”, ma semplicemente altra: dotata di un proprio tempo, di una propria misura, di una profondità che solo chi l’ha vissuta sa riconoscere. Era una terra di contadini e di poeti. Di mani che aravano la terra e di voci che ne cantavano l’anima.
Nel cuore della Sila, nei vicoli in salita delle città antiche, tra gli ulivi della costa ionica e le ombre dell’Aspromonte, viveva un’umanità intensa, concreta, che lavorava il pane con tenacia e custodiva la memoria con parole semplici e sapienziali. I contadini calabresi non erano figure marginali, ma pilastri di una civiltà millenaria. Nelle loro case, spesso spartane, circolavano proverbi, racconti, canti: forme di cultura non scritta, ma radicata. E questa cultura si è fatta, nel Novecento, anche letteratura.
A raccontarla, in quegli anni, non fu un solo scrittore ma un coro. Corrado Alvaro, tra tutti, seppe forse dare voce più autentica a quella Calabria che non voleva essere compassionevole né folcloristica, ma vera. In Gente in Aspromonte e L’uomo è forte, i personaggi non sono solo “contadini”, ma uomini capaci di interrogarsi sul senso della giustizia, della libertà, della speranza.
«Tutto è pieno della Calabria: ogni pietra, ogni nuvola, ogni gesto di un uomo che tace» – scriveva Alvaro, riconoscendo che quella terra parlava anche quando sembrava muta.
Ma accanto a lui c’era una costellazione di autori che, ciascuno a suo modo, ha saputo illuminare aspetti diversi della regione. Leonida Repaci, narratore e promotore culturale, mise in luce il dinamismo intellettuale di una terra che sapeva riflettere su se stessa. Mario La Cava, con i suoi racconti tra ironia e malinconia, seppe disegnare con finezza la psicologia dei calabresi, mostrando come la vita rurale fosse intrisa di sensibilità, intelligenza e ironia. La Cava amava dire: «Il popolo non ha bisogno di essere spiegato. Ha bisogno di essere ascoltato».
E come non ricordare Saverio Montalto, scrittore e sociologo originario di San Giovanni in Fiore, che nella sua opera si dedicò a ricostruire l’identità calabrese come stratificazione culturale, frutto di incontri e resistenze? O Giuseppe Selvaggi, giornalista e poeta, che nella Calabria vedeva non una periferia, ma una sorgente culturale, un Sud che non arretrava ma meditava?
Anche Francesco Perri, autore di Emigranti, diede un’immagine viva e dolorosa della Calabria, senza cadere nella retorica. La sua scrittura restituiva la nobiltà del sacrificio e la forza delle radici: raccontava gli uomini che partivano, sì, ma anche quelli che restavano, a tenere acceso il fuoco della comunità.
Persino chi scriveva in poesia, come Pasquale Rossi, Giuseppe Berto o Domenico Congiusta, trovava nei paesi dell’interno, nelle marine battute dal vento, nelle feste religiose, una fonte continua di ispirazione. In quelle poesie, in quei versi spesso scritti in dialetto o in una lingua sospesa tra italiano e calabrese, si leggeva un popolo intero: non arretrato, ma antico. Non chiuso, ma custodito.
Anche il mondo contadino leggeva e scriveva. Basti pensare ai canti religiosi, ai rosari cantati composti durante le feste patronali del santo, durante le novene, i settenari, etc...
Oggi per lo più dimenticati o ricordati solo dagli anziani dei paesi. Eppure quei canti sono stati scritti da poeti. Il mondo contadino e quello poetico, in Calabria, non erano separati. Non c’era distanza tra chi zappava e chi scriveva. Il poeta veniva quasi sempre da quella stessa terra che raccontava, ne conosceva la fatica e la grandezza. La poesia non era evasione, ma elevazione; non staccava dal reale, ma lo trasfigurava, gli cambiava forma, senza tradirlo.
Questo spiega perché la Calabria, pur ai margini delle cronache storiche, sia stata un centro culturale fecondo. Nelle sue scuole rurali, nei caffè dei piccoli paesi, nei salotti colti di Reggio e di Cosenza, si discuteva di filosofia, di letteratura, di diritti. Vi era una sete di bellezza che nulla – né la povertà, né l’isolamento – poteva spegnere. E da quella sete nacquero pagine potenti, dure, luminose.
Il primo cinquantennio del Novecento in Calabria fu dunque tempo di fermento silenzioso. Mentre l’Italia correva verso la modernità, la Calabria camminava a un altro ritmo, ma non restava ferma. Conservava. Coltivava. Seminava. E ciò che allora pareva distanza, oggi appare fedeltà: alla terra, alla memoria, alla parola.
Per questo, oggi più che mai, è giusto dire: la Calabria non fu mai una terra solo di contadini o solo di poeti. Fu – e resta – un luogo in cui il gesto e la parola, la zappa e il libro, il canto e la semina convivono.
Una terra colta nel senso più vero: non accademica, ma sapiente. Non astratta, ma radicata. Una terra intera.
E forse oggi, dopo tanto cammino, proprio da quella civiltà contadina e poetica che sembrava perduta può venire una luce nuova. La Calabria del futuro non nasce dal rifiuto del suo passato, ma dalla sua riconciliazione. Là dove un tempo si seminava per fame, oggi si può seminare per scelta. Là dove si parlava con gli occhi e con i proverbi, oggi si può parlare con la consapevolezza di chi conosce il valore della propria storia. Le mani che un tempo lavoravano la terra per necessità possono oggi tornare a farlo per amore, per cultura, per visione.
L’agricoltura, che fu condanna, può diventare vocazione. Le colline abbandonate possono tornare a fiorire di ulivi, di vigne, di frutti antichi. Le parole dei poeti, raccolte come semi in un solco di memoria, possono germogliare in una lingua nuova, capace di dire il futuro senza dimenticare le radici.
La Calabria ha già in sé tutto ciò che le serve: il sole, la terra, l’acqua, la bellezza, la sapienza. Occorre solo tornare a vederla con occhi interi, a viverla senza vergogna, a raccontarla senza paura.
Perché è proprio dalla durezza del lavoro, da quei versi contadini, da quel silenzio pieno, che può rinascere il canto più vero.
Un canto che non è rimpianto, ma promessa. Un canto di terra e di luce. Un canto calabrese. Tutto Calabrese.