Un volo nella notte, la morte di un imprenditore nella Pechino di oggi e un racconto che parte dalla Basilicata e si riflette nella storia d’Italia. E poi una donna, che è voce narrante ma anche principale indiziata
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Un peccato, per definirsi tale, deve protrarsi per lungo tempo. E deve, ma questo non è essenziale, ripetersi in occasioni sempre diverse. Piera Carlomagno con l’ultimo suo romanzo (Ovunque andrò edito da Solferino) sembra voler espiare il suo “peccato” letterario. Decide perciò di lasciare la mano sicura della protagonista dei suoi ultimi tre romanzi, Viola Guarino, per raccontarci una storia che, oltre a cambiare interprete, si sposta anche in altri luoghi e altre epoche.
È una forma di coraggio quella che Piera Carlomagno ci dimostra. Perché restare ancorati ad un personaggio risulta alquanto scomodo, e lo sapevano bene gente come Raymond Chandler o Simenon, tanto per fare qualche nome storico, o lo stesso Camilleri per andare su qualcosa di più recente e di altrettanto celebre. Resta comunque il fatto che la serialità, con il passare del tempo, rischia di trasformarsi anche in una trappola, d’oro magari, ma pur sempre una trappola.
Piera Carlomagno con questo nuovo romanzo amplia lo spazio narrativo e, cinematograficamente parlando, fa un grande salto per cambiare totalmente inquadratura. Lascia, per parte del romanzo, l’assolata e pietrosa Basilicata e mentre fugge sembra voler dare un’ultima occhiata alle amate gravine e ai personaggi, ormai familiari, che ci abbracciavano nelle sue precedenti pagine. Lo fa per donarci una storia nuova, che incredibilmente non ci lascia diffidenti (cosa non scontata se si esce dalla serialità). Facendoci percepire una sorta di consuetudine, di fatto nuova, eppure calda e accogliente come una coperta in una giornata uggiosa.
La storia inizia a Pechino. Con un delitto, certo, ma già si nota che l’atmosfera è totalmente diversa. Il morto è Raniero Monforti, che si trova a capo di un impero, tirato su a suon di stoffe e pellami, e che ormai, nel mondo globalizzato, è cresciuto a dismisura. Stupisce che la massima indiziata, (Tania C. la moglie di Monforti), sia anche la principale protagonista e soprattutto voce narrante del romanzo. Questo nei noir non accade mai e la cosa non fa che rinforzare le fondamenta di questo romanzo.
Si resta quindi fin da subito in attesa di un giudizio, cercando una qualche forma di conforto nelle parole della donna che a Napoli, durante la notte che precede la sentenza, si trasforma in una metaforica macchina del tempo. Le pagine scorrono veloci e si assiste da spettatori privilegiati a tutta l’angoscia per quello che sembra stia per accadere e che Piera Carlomagno è bravissima invece a centellinare, portandoci dopo poco in un altro posto e in un altro tempo.
Ecco allora che si ritorna nella terra delle radici. Si cambia pure registro narrativo, il romanzo muta e assume le sembianze di una saga famigliare. Tania rievoca Castrappeso, località dove la sua famiglia ha un palazzo che, insieme al paese è stato spaccato letteralmente in due da una frana. Si torna in Basilicata, of course. Siamo negli anni ‘30 del novecento, ma la storia che Tania racconta è quella più antica e multiforme di una dinastia. Con i contrasti e i tradimenti che fanno da corollario ad altre divisioni, materiali e ben più concrete, provocate dalla frana. Ascoltando il racconto di Tania, al lettore viene un sottilissimo dubbio. Ci si può fidare di lei?
L’onestà di Viola Guarino, dicevamo, cede il passo qui al racconto per ricordi della principale indagata per un assassinio. Tutto ciò dona il carattere dell’imprevedibilità ad un romanzo che funziona, anche per questo genere di cose, molto bene. Non è facile quindi dare una catalogazione precisa a questo libro. Il che è un grandissimo pregio se, come credo di intuire, Piera Carlomagno ha voluto saltar fuori per un po’ dal romanzo cosiddetto di genere.
Un'altra prova, che servirebbe ad avvalorare la mia ipotesi, potrebbe essere la definizione che nella nota lei stessa dà al libro. Scrive che, «questo romanzo è indubbiamente un memoir». E allora mi vengono in mente altri particolari. Pechino per esempio, che Piera Carlomagno conosce bene (è laureata in cinese e ha tradotto un’opera teatrale del premio Nobel Gao Xingjian). Oppure certe leggende di antiche famiglie del sud, con annessi e connessi delle varie epoche, o infine le descrizioni minuziose di certi fondali che rendono la storia viva ed estremamente vera.
Concludo quindi ammettendo che forse la parola memoir non riuscirebbe a definire questo libro fino in fondo. Una certezza però c’è, leggendo Ovunque andrò si ha la percezione esatta di cosa voglia dire raccontare una storia in felicità. E come spesso accade è d’obbligo consigliarne la lettura, perché, se ci fate caso, la felicità ha quasi sempre il piacevole effetto collaterale di diventare contagiosa.