Oltre alla povertà materiale, Meyer racconta una povertà di relazioni. Famiglie spezzate, uomini soli, madri che lottano e perdono. Non è solo una crisi economica, è un crollo culturale
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Nel 2009 Philipp Meyer pubblicava il suo romanzo d’esordio, Ruggine americana (American Rust), ambientato nella Pennsylvania profonda, tra fabbriche abbandonate e sogni infranti. A più di quindici anni di distanza, quelle pagine sembrano scritte ieri. Perché l’America che Meyer racconta – disillusa, impoverita, in cerca di riscatto – è la stessa che oggi agita la politica americana e spiega, almeno in parte, l’onda lunga del trumpismo, la rabbia sociale, la sfiducia nelle istituzioni.
Il libro segue due amici ventenni, Isaac English e Billy Poe, cresciuti in una cittadina fittizia della Rust Belt dove il tempo si è fermato con la chiusura degli stabilimenti. Isaac è brillante, ma bloccato da un padre invalido e da un senso di colpa che lo tiene inchiodato a una vita che non vuole. Poe è l’ex promessa locale del football, rimasto impantanato in un’esistenza senza scopi. Un omicidio accidentale cambia tutto: la fuga, l’indagine, la tensione crescente tra responsabilità individuale e condanna collettiva. Ma Ruggine americana è molto più di un noir: è un romanzo sociale travestito da dramma esistenziale, in cui l’indagine vera riguarda il cuore oscuro del paese.
E se rileggiamo oggi quelle pagine, ci accorgiamo che parlano con forza del presente.
Buell, la città immaginaria del romanzo, è un mosaico di capannoni arrugginiti, centri commerciali vuoti, case modeste e rassegnazione. È lo specchio di una parte d’America reale, quella della Rust Belt, dove la deindustrializzazione ha lasciato dietro di sé disoccupazione, dipendenze, fratture sociali. Oggi, quel paesaggio è ancora lì. Cambiano i nomi, ma non la sostanza. Le promesse della globalizzazione non sono arrivate ovunque. Alcuni distretti del Midwest hanno ritrovato slancio grazie a investimenti nei settori delle batterie e dei chip, ma per milioni di americani il lavoro stabile, ben pagato, con dignità e tutele, è solo un ricordo.
Meyer mette a nudo un dramma generazionale. I suoi personaggi non sono poveri nel senso tradizionale del termine: sono bloccati. Privi di alternative. Isaac sogna un’altra vita, ma è prigioniero del dovere. Poe ha forza fisica, ma zero prospettive. Non c’è rete sociale, non c’è politica in grado di offrire una via d’uscita. Oggi, quel sentimento di paralisi esistenziale è diffuso tra i giovani americani, soffocati da debiti studenteschi, affitti esorbitanti, precarietà cronica. L’ascensore sociale si è rotto. E chi resta fermo tende a colpevolizzare chiunque: lo Stato, gli immigrati, i politici, i “cittadini delle coste”.
In questo vuoto, si insinua il risentimento. Non è un caso se molte contee della Rust Belt, un tempo roccaforti democratiche, hanno virato verso Donald Trump, prima nel 2016 e poi di nuovo nel 2020 e nel 2024. La politica del rancore trova terreno fertile dove l’identità è stata calpestata, dove la comunità si è dissolta e la solitudine è diventata una malattia collettiva. Le tensioni etniche e di classe che Meyer accenna – senza mai didascalismo – sono oggi la materia quotidiana del dibattito americano. Tra muri, armi, fake news e spaccature ideologiche, l’America vive una crisi profonda che Ruggine americana ha saputo intuire prima di molti analisti.
Oltre alla povertà materiale, Meyer racconta una povertà di relazioni. Famiglie spezzate, uomini soli, madri che lottano e perdono. Non è solo una crisi economica, è un crollo culturale. Anche questo aspetto è dolorosamente attuale. Negli Stati Uniti si parla sempre più spesso di epidemia di solitudine, una condizione che colpisce in modo trasversale e mina le basi della salute mentale e della coesione sociale.
Ruggine americana non è solo un buon romanzo: è una lente potente attraverso cui leggere gli Stati Uniti di oggi. Non c’è retorica, non ci sono eroi. Solo esseri umani spaesati, incerti, spinti da paure e residui di speranza. In un Paese che fatica a riconoscersi, Meyer non offre facili risposte ma pone domande essenziali.
Chi siamo diventati? Che ne è della promessa americana? E soprattutto: chi paga davvero il prezzo del progresso?
Se è vero che la narrativa ha il potere di anticipare il futuro, allora Ruggine americana è uno di quei libri che non smetteremo mai di leggere. Perché finché esisteranno Paesi divisi, vite marginalizzate e sogni traditi, quella ruggine continuerà a parlarci. E a farci domande che non possiamo ignorare.