Nella ritualità solenne che ogni anno accompagna l’inaugurazione della stagione al Teatro la Scala di Milano, il rito dell’opera lirica si rinnova come un appuntamento con la memoria culturale del Paese. La Prima della Scala non è mai semplicemente un debutto teatrale: è un gesto simbolico che dice qualcosa sulla direzione estetica che il teatro più rappresentativo d’Italia intende intraprendere. Da Verdi a Puccini, da Donizetti a Bellini, la Scala ha spesso rivendicato il proprio ruolo di custode e al tempo stesso interprete dell’identità lirica nazionale. Per questo, ogni volta che il sipario si alza su un titolo non italiano, il gesto assume il carattere di una scelta consapevole, talvolta perfino provocatoria, come a ribadire che la tradizione non è una relizione immobile, bensì un organismo vivo che si rafforza nel dialogo con ciò che le è estraneo. Ma non tutti gradiscono la scelta di un'opera non appartenente alla tradizione italiana per la Prima.

Quest’anno il teatro ha osato nuovamente: aprire la stagione con Lady Macbeth, nella versione ormai stabilizzata di Lady Macbeth del Distretto di Mtsensk di Dmitrij Šostakovič, è un atto che trascende la semplice programmazione di repertorio. L’opera, com’è noto, è un dramma crudo, lacerante, che abbandona ogni opalescenza romantica per scavare, con lucida ferocia, negli abissi dell’alienazione umana.

La trama dell'opera ruota attorno a Katerina Izmailova, giovane moglie prigioniera in un matrimonio spento e oppressivo, vive in una realtà soffocante e brutale. L’incontro con Sergej, lavoratore della tenuta e figura di seducente vitalismo, accende in lei una passione irrefrenabile. Il desiderio si trasforma presto in violenza: Katerina avvelena il suocero e, con l’aiuto dell’amante, uccide anche il marito. Ma il loro sogno di libertà naufraga rapidamente: scoperti, vengono deportati in Siberia, dove la protagonista, tradita e abbandonata, precipita nell’ultima e più radicale disperazione.

La decisione di inaugurare la stagione con un’opera di tale complessità — musicale, letteraria e morale — ha rappresentato un banco di prova ambizioso, forse fin troppo audace per un pubblico che alla Prima chiede spesso un equilibrio tra rinnovamento e riconoscibilità, tra modernità e radicamento nella tradizione italiana.

Sul piano musicale, la partitura di Šostakovič non concede tregua: l’orchestra è chiamata a un virtuosismo tellurico, a un impasto sonoro che alterna brutalità percussiva a momenti di tagliente lirismo, con continui slittamenti timbrici e ritmici che esigono rigore assoluto. La direzione ha affrontato l’opera con una lucidità analitica encomiabile, ricostruendo la trama musicale come un tessuto lacerato ma coerente; eppure resta la sensazione che una tale densità espressiva, debitrice delle avanguardie novecentesche, possa risultare ostica a un ascolto meno abituato a confrontarsi con estetiche della dissonanza e della crudeltà.

La drammaturgia, dal canto suo, non offre ripari: Lady Macbeth è un’opera senza figure consolatorie, senza smalto poetico, senza quella patina di bellezza melodica che tradizionalmente guida lo spettatore italiano attraverso la tragedia. La violenza psicologica, la degradazione sociale, l’assenza di valori redentivi rendono la vicenda un itinerario nella dissoluzione, un teatro della perdita che non concede catarsi.

Non stupisce, dunque, che il grande pubblico abbia accolto la scelta con una certa ritrosia.
Molti avrebbero preferito un titolo italiano, una pagina verdiana o pucciniana capace di racchiudere la consueta miscela di riconoscibilità e profondità emotiva; un’opera che potesse trasformare la Prima in una festa dell’identità nazionale oltre che in un evento culturale. La preferenza per un repertorio “di casa” non va letta come rifiuto dell’innovazione, ma come un richiamo al valore rituale che la Prima tradizionalmente riveste: per molti spettatori, essa rappresenta non solo l’apertura della stagione, ma un atto collettivo di memoria.

Tuttavia, proprio per questo, la scelta della Scala appare — nelle sue intenzioni più profonde — tanto rischiosa quanto necessaria. Presentare Lady Macbeth significa ricordare che la tradizione non si preserva solo reiterando ciò che si conosce, ma anche interrogandosi, talvolta duramente, su ciò che inquieta e mette alla prova. È una sfida estetica e culturale che chiede al pubblico di uscire dalla zona di conforto, di misurarsi con un’opera che non consola ma interroga, non accarezza ma incide.

Forse la Prima di quest’anno non ha offerto l’abbraccio melodico che molti auspicavano; ma ha ricordato che il teatro d’opera, quando osa, può ancora essere luogo di sconcerto, di pensiero e di autentico turbamento. In fondo, questa è anch’essa una forma di tradizione: la più antica, la più necessaria.