A Reggio Calabria la fotografia è quasi un paradosso. Qui, insieme a Campobasso e Potenza, l’erosione del potere d’acquisto non c’è stata: stipendi e prezzi hanno corso quasi in parallelo, difendendo famiglie che già partivano da livelli di reddito più bassi. È un’anomalia nel quadro desolante offerto dal nuovo Geography Index dell’Osservatorio JobPricing, che mostra come nell’ultimo decennio gli stipendi abbiano perso terreno ovunque. In media, lungo lo Stivale, il saldo tra retribuzioni e inflazione segna un -11,3%.

E se ci si sposta verso Nord la forbice si allarga. In Veneto i salari hanno guadagnato appena un 4,5% in dieci anni, contro un’inflazione del 21%. Risultato: -16,5% di potere d’acquisto, il peggior dato regionale. Male anche Emilia Romagna (-13,4%) e Lombardia (-12,6%), terre considerate “ricche” ma dove i lavoratori hanno dovuto tagliare più di tutti. «Là dove le buste paga sono già sopra la media, molte imprese hanno assorbito gli aumenti contrattuali senza trasferirli ai dipendenti» spiega Matteo Gallina, responsabile dell’Osservatorio. Un circolo vizioso che ha finito per penalizzare proprio chi partiva da condizioni migliori.

Il paradosso emerge chiaramente nelle grandi città. Bolzano guida la classifica delle perdite: -20,4% di potere d’acquisto. Subito dietro Verona e Genova (-17%), seguite da Napoli (-15,6%), Bologna (-13,2%) e Milano (-12,5%). Qui la vita costa di più, e la dinamica dei prezzi ha superato ogni correzione salariale. Roma resiste meglio (-7,3%) e Torino limita i danni con un -5,9%, ma restano pur sempre numeri che raccontano di famiglie costrette a tagliare consumi e a intaccare i risparmi.

Il colpo più duro arriva da un capitolo che riguarda tutti: la spesa quotidiana. Secondo l’Istat, tra il 2019 e il luglio 2025 i prezzi di cibo e bevande non alcoliche sono aumentati del 30,1%. Non un optional da ridurre, ma beni essenziali che hanno trasformato il carrello della spesa in un incubo. È la beffa oltre il danno: perché l’inflazione colpisce sempre più chi ha meno margini di spesa.

Eppure, i salari non sono rimasti del tutto fermi. Dopo anni di stagnazione, dal 2022 al 2024 le retribuzioni sono cresciute di circa il 3% l’anno. Troppo poco per compensare la fiammata inflattiva, ma abbastanza da restituire la sensazione di un mercato del lavoro in movimento. Lo conferma anche la Cisl: nel primo semestre 2025 i contratti hanno portato a un +3,5% rispetto all’anno precedente, ma il gap con il 2019 resta di 9 punti percentuali.

Se si guardano i valori assoluti, Milano resta la regina delle buste paga con una Rga (retribuzione globale annua) di 38.544 euro. Vuol dire che, fatto 100 lo stipendio medio italiano, sotto la Madonnina si guadagna 119. Seguono Bolzano, Trieste, Roma e Genova. Più indietro, ma sempre sopra la media, le province emiliane e lombarde: Bologna, Parma, Modena, Reggio Emilia, Monza, Bergamo, Brescia e Como.

In coda alla classifica restano invece le province meridionali: Ragusa, Crotone e Cosenza, tutte sotto i 27mila euro annui. Ma negli ultimi anni il Sud ha corso di più. Dal 2015 al 2024 i salari sono aumentati del 12,8%, contro il 9% del Nord. Un processo lento, ma che ha ridotto il divario dal 18,6% al 14,7%. Un piccolo passo avanti in una geografia che resta profondamente segnata dalle disuguaglianze.

Dietro i numeri ci sono vite quotidiane. A Verona, un operaio metalmeccanico racconta che la sua busta paga è cresciuta di un centinaio di euro in dieci anni, ma l’affitto è raddoppiato e al supermercato spende il doppio per la stessa lista della spesa. A Napoli, una commessa guadagna 1.100 euro al mese: «Alla fine mi salva la famiglia, dividiamo tutto. Senza sarebbe impossibile».

Il report JobPricing non si limita a misurare la distanza tra stipendi e prezzi: certifica la trasformazione sociale che attraversa il Paese. Il Nord produttivo, che per decenni ha trainato la crescita, oggi è quello che ha perso di più. Il Sud povero, invece, cresce un po’ di più e riduce le distanze, pur restando indietro. Un ribaltamento che obbliga a rivedere i luoghi comuni.

Ma l’inflazione non guarda le mappe. E se la corsa dei prezzi continuerà, il rischio è un Paese ancora più diviso tra chi riesce a reggere l’urto e chi è costretto a tagliare. Intanto, da Reggio Calabria a Milano, il messaggio è lo stesso: lavorare non basta più per proteggere il proprio futuro.