La Pece Brettia è stato il primo prodotto enologico “certificato” della storia del Mediterraneo. Se n’è parlato nella terza giornata del Vinitaly Sibari nel corso di un incontro specifico al quale hanno preso parte Filippo Demma, direttore dei Parchi archeologici di Sibari e di Crotone, Gennaro Convertini, presidente dell’Enoteca regionale, Massimo Tigani Sava, giornalista e saggista.

Tema del confronto a più voci: “La Pece Brettia e la produzione di vino in Calabria nell’antichità”. Il tutto nasce da un nuovo libro dello stesso Tigani Sava che dà il giusto risalto, in chiave storico-identitaria collegata alla dimensione enologica, ad una delle attività economiche più importanti della Sila calabrese (intesa nella sua accezione geografica più estesa ed ampia, così come la consideravano diversi autori antichi) dall’epoca dei Bretti e dei Romani fino a qualche decennio fa, senza dimenticare che le attività di sfruttamento delle foreste silane furono strategiche anche per la civiltà degli Enotri e poi per quella della Magna Grecia.

Il denso e ampio volume, anticipato per il Vinitaly Sibari da un saggio di oltre cento pagine, ha un titolo molto significativo: “Pece Brettia: alle origini dell’enologia in Calabria e nel Mediterraneo”. L’opera fa riferimento ai tanti autorevoli studi che sono stati dedicati da storici, archeologi e ricercatori calabresi e non sugli Enotri, sul popolo dei Brettii, sulle "poleis" della Magna Grecia, sull’Età Romana, sui ritrovamenti archeologi relativi a frammenti di anfore vinarie o di altri contenitori utilizzati per lo stoccaggio e la commercializzazione della Pece Brettia. Questa ulteriore fatica editoriale di Tigani Sava fa seguito al lancio della terza edizione ampliata di un altro corposo lavoro (“L’Alberello Enotrio”) che già conteneva un lungo paragrafo sullo stesso tema.

Un articolo di giornale non è sufficiente a riassumere tutti gli spunti che emergono da un’analisi delle fonti e delle ricerche sulla Pece Brettia. Basterà soffermarsi su alcuni capisaldi. Siamo di fronte a un prodotto intimamente connesso allo sfruttamento dei boschi silani e di alcune prevalenti conifere, in particolare il Pino Laricio. Generazioni di boscaioli, per millenni, hanno intaccato la corteccia del Pino Laricio per ricavarne la resina che colava dalle “ferite” dell’albero. Tale resina, e soprattutto quella derivata dall’estrazione a caldo di questo “liquor”, con una tecnica che ricorda molto quella dei carbonai delle Serre che ancora la mettono in atto, veniva poi bollita con l’aggiunta di aceto: ne nasceva la famosa, ricercata, scura ed esaltata "Pix Bruttia", ritenuta ideale per rivestire l’interno delle anfore vinarie e per sigillarle.

Ovviamente il contatto tra resina e vino, così come oggi accade ad esempio con le barrique di rovere, era anche causa di processi chimici finalizzati essenzialmente alla conservazione del prodotto, o magari anche all'aromatizzazione. Le fonti antiche, diverse delle quali autorevoli e primarie come quella di Plinio il Vecchio, attestano la distintività assoluta della Pece Brettia che, nell’ambito della diffusione mediterranea di prodotti simili (tra Asia occidentale, Africa del Nord, mondo greco e mondo romano), era considerata la migliore e più profumata per usarla, appunto, in enologia.

Un aspetto altrettanto interessante è quello della presenza, sulle anfore ceramiche all’interno delle quali veniva depositata e poi trasportata la Pece Brettia, di appositi bolli ("Pix Bruttia") che ne attestavano, “firmavano” e certificavano sia la qualità sia la provenienza. Una vera e propria Dop di tanti secoli fa, forse la prima del mondo occidentale, che serviva a "proteggere" la Pece Brettia da possibili imitazioni, ma anche a tutelare lo Stato Romano che sulla stessa (o su buona parte di essa) rivendicava un vero e proprio monopolio.

Tali bolli sono stati riscontrati su frammenti di ceramiche rinvenuti a Pompei, a Trebisacce (non lontano dalla Copia che succedette a Sibari e poi a Thurii), a Pian delle Vigne sulla costa tirrenica lametina. Sulle attestazioni epigrafiche della Pece Brettia si sono soffermati noti studiosi, quali Felice Costabile in riferimento alla documentazione (tabelle bronzee) dell’Olympeion di Lokroi (IV-III secolo a.C.). Prezioso il contributo del direttore Filippo Demma che ha ripercorso secoli di produzioni vitivinicole dagli Enotri ai Romani, sottolineando la centralità mediterranea dell'antica Calabria. Gennaro Convertini ha dato invece risalto alle specializzazioni dell'attuale vitivinicoltura regionale.

Mentre “L’Alberello Enotrio” ha, tra l’altro, suggerito nuovi percorsi di approfondimento (anche sul fronte dell’autentico marketing territoriale) relativi a una trascurata stagione enotria che precedette di diversi secoli quella dei coloni ellenici che si insedieranno sulle coste joniche e tirreniche dell’antica Calabria, ed ha elaborato una teoria originale sulla tecnica di allevamento della vite ad alberello da leggere contestualmente all’articolata diffusione e domesticazione dei diversi vitigni nel Bacino del Mediterraneo, proponendo altresì quale origine del concetto di Dieta Mediterranea i Sissizi del mitico Re Italo, il volume sulla Pece Brettia riflette sui primordi dell’enologia e indica nuovi ed esaltanti sviluppi multidisciplinari. Il volume rientra appieno nella filosofia di Grand Terroir, sistema di comunicazione integrata professionale del Gruppo LaC dedicato ad agroalimentare, enogastronomia, artigianato e turismo.