Ci ha pensato il Rapporto annuale sulla politica di bilancio, redatto dall’Upb, l’Ufficio parlamentare al ramo a delimitare il confine tra propaganda politica e realtà economica e strutturale del sistema-Paese. La legge di bilancio 2025 del governo Meloni avrebbe dovuto tagliare o almeno alleggerire il peso delle tasse, rendendo strutturale il taglio al cuneo fiscale che doveva tradursi in una serie di detrazioni per i lavoratori dipendenti. Almeno a parole. Perché nei fatti le scelte di politica economica del governo hanno prodotto l'effetto opposto: ovvero l'aumento dei contributi da versare al Fisco. La stabilizzazione del taglio del cuneo e l'accorpamento delle aliquote Irpef introdotti in manovra «se, da un lato, danno maggiore stabilità al sistema, dall'altro, aumentano la sensibilità dell'imposta personale sul reddito all'inflazione soprattutto per i lavoratori dipendenti».

In sostanza la nuova struttura Irpef, essendo più progressiva, produce un maggior drenaggio fiscale. «In un contesto in cui la dinamica retributiva è già risultata insufficiente a compensare l'inflazione - osserva l'Upb -, l'intensificazione del prelievo fiscale derivante dall'interazione tra quest'ultima e la progressività dell'imposta rischia di erodere in misura considerevole gli incrementi nominali delle retribuzioni, con potenziali ricadute negative sui consumi e sulla domanda interna».

Aumentano le tasse per i lavoratori dipendenti

Nella simulazione condotta dall’Upb, a parità di inflazione e in confronto al 2022, i lavoratori dipendenti hanno pagato il 13% in più di tasse. In termini assoluti, si tratta di 370 milioni di euro. Secondo L'Upb questo maggior drenaggio fiscale è di fatto causato dalla fiscalizzazione del taglio del cuneo. E infatti per i pensionati e gli altri percettori di reddito questo effetto di maggior drenaggio fiscale non c’è o è minimo.

Cos’è il fiscal drag

Alla base dell’aumento delle tasse sui redditi dei lavori dipendenti c’è un cortocircuito che in economia è noto come fiscal drag. In pratica, quando gli stipendi aumentano (generalmente per via dell’inflazione) si finisce per pagare più tasse, anche se il potere d’acquisto in realtà non cresce. Questo avviene perché l’Irpef è un’imposta progressiva, il che significa che man mano che il reddito aumenta, si passa a scaglioni con aliquote più elevate. Se i redditi salgono ma gli scaglioni Irpef restano invariati, il lavoratore si ritrova a pagare più tasse. Si tratta di un fenomeno che c'è sempre stato e continuerà a esserci. Ma «la recente riforma fiscale – scrive l’Upb – ha reso il sistema più progressivo e più esposto al drenaggio fiscale, amplificando l’impatto di eventuali pressioni inflazionistiche».
 

«Per nuove misure in manovra serviranno più tasse o tagli»

Nell’autunno scorso, scrive l’Ufficio parlamentare, «veniva impostata una manovra che utilizzava quasi integralmente gli spazi di bilancio disponibili». E ora, «a meno di miglioramenti della dinamica della spesa netta rispetto a quanto inizialmente previsto, eventuali nuovi interventi dovranno, quindi, trovare copertura attraverso aumenti di entrate o riduzioni di spese strutturali». Che tradotto dal burocratese significa che per inserire eventuali nuove misure in manovra il governo sarà obbligato ad alzare le tasse o a tagliare delle spese.