È il più grande terminal dell’area, il più profondo d’Europa, eppure il più incompiuto dei sogni del Sud. Simbolo del fallimento della programmazione pubblica ma anche della forza ostinata di chi non si arrende
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Da lontano sembra una promessa. Dall’autostrada, il porto di Gioia Tauro appare come una distesa di gru e container, un’enorme macchina d’acciaio che respira a intermittenza. È il più grande terminal del Mediterraneo, il più profondo d’Europa, eppure il più incompiuto dei sogni del Sud.
Qui, dove una volta c’erano agrumeti e ulivi, si immaginava una nuova Rotterdam, un cuore pulsante capace di far rinascere la Calabria e, con essa, il Mezzogiorno. Ma oggi, tra silenzi e promesse mancate, quel sogno è diventato una lunga attesa.
Il sogno industriale e il fallimento dello Stato
Negli anni Settanta, quando il governo decise di costruire a Gioia Tauro un grande polo siderurgico, la parola “futuro” sembrava finalmente possibile anche qui. La Piana avrebbe avuto migliaia di posti di lavoro, una città operaia, scuole, servizi, ferrovie moderne.
Poi arrivò il crollo dell’Italsider, gli scandali, il terrorismo, la crisi dell’acciaio. Tutto svanì. E la promessa del riscatto si trasformò in una delle più grandi cattedrali nel deserto d’Italia.
Lo Stato, nel tentativo di “compensare” il territorio, costruì un porto immenso — ma senza un piano industriale vero. Un’infrastruttura nata nel vuoto: senza strade adeguate, senza ferrovie, senza retroporto. Una porta senza città.
Le mani della ’ndrangheta e l’assenza dello Stato
Dove non c’è Stato, arriva chi lo sostituisce. La Piana di Gioia Tauro è diventata il laboratorio della ’ndrangheta moderna, quella che non spara più ma gestisce, controlla, si insinua nelle pieghe dell’economia globale.
Il porto, oggi, è anche una delle principali porte d’ingresso della cocaina in Europa. Decine di tonnellate sequestrate ogni anno, container pieni di banane e caffè che nascondono la nuova economia criminale.
Un funzionario di polizia lo dice senza giri di parole: «Gioia Tauro è una metafora perfetta: un luogo potenzialmente ricco, ma avvelenato da un sistema che non vuole cambiare».
Le luci: il porto che resiste
Eppure, qualcosa resiste.
Il terminal container — oggi gestito da MedCenter Container Terminal, controllato da MSC — è tornato a crescere. Nel 2024 ha superato i 3,5 milioni di TEU, riportando Gioia Tauro tra i primi porti del Mediterraneo.
Qui lavorano quasi 1.500 persone, molte giovani, molte tornate dal Nord o dall’estero. Ci sono investimenti in digitalizzazione, automazione, sicurezza. C’è una nuova generazione di tecnici e ingegneri che non vogliono emigrare.
«Non è vero che il Sud non sa fare impresa», dice Carmela, ingegnera di 29 anni. «Semplicemente ci impediscono di provarci».
Le ombre: un porto senza città
Ma basta uscire dai cancelli del terminal per ritrovare un’altra Calabria. Strade dissestate, disoccupazione giovanile al 60%, capannoni vuoti, degrado.
Il porto cresce, ma il territorio muore: i profitti restano lontani, i container passano ma non lasciano nulla. È la globalizzazione senza ricadute, l’isola produttiva in un mare di povertà.
I sindaci dei comuni della Piana lo ripetono da anni: serve un retroporto, una zona economica speciale vera, collegamenti ferroviari, investimenti nella formazione.
«Abbiamo la porta più grande d’Europa — ma nessuno ci entra», dice amaramente un signore del posto.
Curiosità e simboli
Il porto delle illusioni: prima dell’inaugurazione nel 1995, si pensava che Gioia Tauro avrebbe dato lavoro a 30.000 persone. Oggi, gli occupati diretti e indiretti non superano i 2.000.
Una città fantasma: la “città nuova” costruita negli anni ’70 per i futuri operai è rimasta quasi disabitata. Oggi ospita case popolari e qualche ufficio comunale.
Il nome: “Gioia” viene da “Jò”, la dea greca della fertilità. Ma nella storia recente, la gioia è rimasta solo nel nome.
Gioia Tauro resta un simbolo. Del fallimento della programmazione pubblica, dell’incapacità dello Stato di leggere il Sud, ma anche della forza ostinata di chi non si arrende.
C’è un Sud che resiste, che lavora in silenzio, che vuole trasformare le banchine in una vera piattaforma di sviluppo, non in un punto di transito.
Se riuscirà, dipenderà non solo dalla Calabria, ma dal coraggio del Paese intero di guardare qui, finalmente, senza pietà e senza pregiudizi.

