Continua il viaggio in tre puntate di LaC nell’impatto della comunità e dell’economia cinesi sull’economia italiana. Questa è la seconda parte della nostra indagine: 

In Italia vivono da decenni oltre 300.000 cittadini cinesi. Considerando naturalizzazioni e seconde generazioni, il numero reale è molto più alto. È una delle comunità straniere più radicate e laboriose, ma resta misteriosa. Lavora senza sosta, raramente partecipa alla vita pubblica e difficilmente si fa notare.

Interi quartieri, da Prato a Milano, da Roma a Napoli, si sono trasformati in piccole Chinatown, luoghi dove il tempo scorre secondo regole proprie. Le concentrazioni maggiori sono al Nord e al Centro: Milano, Prato, Firenze, Bologna, Torino e Venezia. Ma la presenza cresce anche al Sud, soprattutto in Campania, Puglia e Calabria, con imprenditori attivi in commercio, ristorazione e tessile. Nel 2024, oltre 56.000 imprese italiane erano a guida cinese, un record tra le comunità straniere.

A Prato l’influenza economica è evidente: migliaia di laboratori tessili producono abiti “Made in Italy” per marchi nazionali e internazionali, con ritmi durissimi. La prima generazione di migranti proveniva dalle province di Zhejiang e Fujian, costruendo reti chiuse e solidali, basate sul lavoro, la famiglia e l’impresa. «È una comunità che vive più di notte che di giorno», racconta un funzionario del Comune di Prato. «Lavora nei capannoni, cucina e dorme in piccole stanze. È una vita separata, non per diffidenza, ma per necessità».

La riservatezza è rafforzata dalla barriera linguistica e dall’auto-protezione sociale. I cinesi si assumono tra loro, prestano soldi e organizzano le proprie attività con canali interni. Ma dietro questa armonia si nascondono problemi: lavoro nero, evasione fiscale, trasferimento di denaro in circuiti non ufficiali (oltre un miliardo di euro all’anno verso la Cina).

Le nuove generazioni cambiano il quadro: parlano italiano, frequentano l’università, si muovono tra due culture. A Milano, Firenze e Bologna nascono associazioni di giovani italo-cinesi che organizzano eventi culturali e sociali. «Non vogliamo restare un corpo estraneo», spiega Lin, 24 anni, studentessa a Torino. «Siamo italiani anche noi, ma vogliamo farci conoscere».

Nonostante i passi avanti, la distanza culturale e sociale resta. Gli italiani oscillano tra ammirazione per disciplina e sospetto per riservatezza. Per evitare che diventi un muro, servono controlli, incentivi alla legalità e progetti scolastici che raccontino chi sono i nuovi cittadini cinesi d’Italia.

Il “mistero cinese” non è un complotto: è un’economia parallela sviluppata nel silenzio, spesso per necessità. Conoscere questa realtà è fondamentale per la coesione nazionale: la comunità cinese non è più un mondo a parte, ma parte integrante del Paese.