La recensione

“Better Call Saul”, la serie più bella degli ultimi anni è su Netflix per l’atto finale

L'opera del duo Gilligan-Gould, dopo una pausa è tornata per chiudere il cerchio con la sesta e ultima stagione

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di Alessia Principe
26 aprile 2022
21:00

Vince Gilligan è un mago. È quel genere di prestigiatore che conosce certi trucchetti e certe storielle da farti prendere il resto della giornata libera e spolverare il vino dalla cantina. Due bottiglie per cominciare, in fresco l'altra.

«Ti ricordi di quel tizio su a Santa Fe? - potrebbe cominciare così, prendendo due bicchieri con le dita - No? Allora senti qua… lavorava nell’informatica per una società farmaceutica, mi segui? Insomma un bel giorno questo drittone decide di tirare su un po’ di soldi vendendo sottobanco a certa gente che lavora per altra gente, mi capisci... confezioni di farmaci. E parliamo di 1000 euro al sacchetto. Sai che gli è capitato? Mettiti comodo - e tu sei già comodo -  s’era preso in leasing un Hammer di quelli da 60mila dollari e…». Insomma i maghi ti prendono al laccio con delle storielle così, perché vuoi sapere come vanno a finire.


L'universo multitempo di Saul Goodman

Dopo una lunga pausa la coppia Gilligan-Gould (creatori e sceneggiatori) è tornata per l’atto finale della serie Netflix “Better Call Saul”. Un episodio alla volta, niente volata, niente maratona per gli spettatori abituati al fondino. Dunque rieccoci lì, di nuovo, in un universo fatto a pezzetti: scorriamo dritti, come il tempo ordinario, ci guardiamo tutt’intorno seguendo una costruzione lungimirante (è dire poco), meticolosissima, che va avanti e indietro e di lato mentre ti soffia addosso un vento dal Sud che è quasi d'inferno.

La cintura di polvere secca ancora gli umori nel deserto del New Mexico. Dai lati sorvegliano i confini il Texas, l'Oklahoma, il Colorado e l’Arizona, giù guarda e basta il Messico vero. Fa caldo, sissignori, e non è quel caldo dolce che t'accarezza, è quello che bastona forte.

Le camicie di nylon si inumidiscono alle ascelle degli sgherri, l’odore acre s’alterna ai profumi della carne grigliata, alla polvere di sparo, al sangue che scorre dalle gole, all’olio esausto dei fast food. Si spara ma non importa. Capita. C’è la polleria con il boss Fring che spazza per terra, sta alla cassa con la visiera e il sorriso, dà il resto con attenzione e nel retro ordina esecuzioni. Il capo dei capi, don Hector Salamanca, sovrintende questo mondo e quell’altro da una sedia a rotelle e con un campanello sul bracciolo. Ci muoviamo da qui e restiamo sempre al confine di tutto.

Benvenuti ad Albuquerque

Il teatro della scena è Albuquerque, una lingua di passaggio da mezzo milione di abitanti, capoluogo della contea di Bernalillo, America e non America. Latinos, nativi, bianchi e afroamericani, tutti con lo sguardo a Sud, un limes che si riflette nei cerchioni cromati delle Chrysler Fifth Avenue, degli Hammer customizzati e delle Javelin Amc che sollevano un mare di sabbia da sentirla fino all’intestino.

La città all’interno somiglia a un grosso centro commerciale: acciaio lucido sulle ringhiere, arredi di truciolato da discount, mattonelle color crema, lampade in stock, fili elettrici che vomitano dalle prese. Il tessuto suburbano ha le classiche villette prefabbricate, barbecue e garage, seminterrati col biliardo e poi, nei palazzoni, ecco il lusso degli studi legali d’elite nelle scrivanie in cocobolo, animati da avvocati fasciati in rigidi completi italiani. Man mano che ci si allontana dal cuore delle attività centrali, i grandi spazi con troppo cielo e nessuna forma all’orizzonte, tornano di aria gialla. Rifornitori di gommisti, Car Wash, palloni scossi dal vento che danno il benvenuto nelle fogge di Lady Liberty e di un omino a forma di stecco. Benvenuti in New Mexico, insomma.

In questo plastico urbano, si muove Jimmy McGill (il favoloso Bob Odenkirk che per poco sul set non ci lasciava le penne), non ancora il Saul di “Breaking Bad”, non ancora al volante della sua Cadillac DeVille, un personaggio nato da una costola di un Adamo ingombrante. Sembrava impossibile tessere un personaggio all’altezza del Walter White (creatura di Gilligan), invece eccolo Jimmy, un diavolo di avvocato da panchina, uno spiritaccio col biglietto da visita stampato sui fiammiferi, abile imbonitore licenziato da poco dall’università della strada ed entrato nell’albo degli avvocati veri. 

Do u remember Slippin Jimmy?

Una volta dalle parti dell’Illinois, lo conoscevano come Slippin Jimmy, truffatore di rara abilità. Cuore limpido e mano veloce, un animo generoso votato naturalmente alla delusione, una tenacia da scalare le montagne. Ecco chi era Jimmy. È finito dentro per una certa storia di tettucci apribili e Cadillac con i vetri oscurati ma ora è a posto. Vuole somigliare al fratello, il grande avvocato Chuck McGill, il suo Himalaya irraggiungibile. Desidera renderlo orgoglioso.

Ed ecco, signori, la costruzione perfetta di un personaggio calato in un mondo straordinariamente imperfetto. Niente interni da AD, per intenderci, vita vera e fabula insieme, alla vecchia maniera, come le belle storie da esterno e seggiola. Intorno a Jimmy, la vegetazione umana degli anziani parcheggiati a mangiare gelatina nelle case di riposo, le cause impiantate sui terreni da espropriare, i traffici costanti di disperati in fuga dal Messico, vendette trasversali, droga, valigette con generosi mattoncini da 10mila dollari l’uno, e sempre il sole che ti picchia in testa.

Jimmy è votato al bene, ama Kim con la coda bionda arricciata alle punte, ama anche suo fratello che non riesce a conquistare, ma nei guai si ficca sempre. Si fa vedere anche Mike Ehrmantraut (altro personaggio figlio di Breaking Bad) con la faccia straordinaria di Jonathan Banks, l’uomo che risolve i problemi, l'uomo che vorresti vicino quando le cose girano male. Nonostante l'impegno a non cedere alle tentazioni, a Jimmy le cose vanno male. Come si dice? La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Quella di Jimmy porta al suo alter ego, Saul, quello che vale la pena chiamare se ti ficchi in un brutto guaio.

Gli opening da drugstore

La serie è saporita da perderci la testa. Gli opening interrupti, con quei caratteri che non sono vintage, non sono moderni, non sono da insegna ma la ricordano e finiscono come in un errore, in un glitch, sono roba da vecchia elettronica di consumo. Siamo dalle parti del capolavoro di grafica tra font da drugstore e immagini di gadget anni 90.

Il formato a bassa risoluzione, in versione Vhs di quei pochi secondi smozzicati forse ci dirà qualcosa ma bisognerà arrivare in fondo alla sesta e ultima stagione che ha un solo difetto congenito: prima o poi finirà.

Giornalista
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