Ogni 11 settembre l’America si guarda allo specchio e vede riflessa la sua ferita più profonda. Le Torri che crollano, migliaia di vite spezzate, la sensazione di vulnerabilità in un Paese che si era sempre creduto invincibile. Da quel giorno il mondo è cambiato per sempre. E non in meglio.

Perché l’11 settembre non ha generato soltanto dolore: ha prodotto vent’anni di guerre sbagliate, di vendette cieche, di un Medio Oriente devastato. Gli Stati Uniti hanno risposto con la forza, e quella forza ha prodotto altro odio, altra instabilità, altro sangue. Alla fine, il terrorismo non è stato sconfitto: è stato moltiplicato, frammentato, diffuso come un virus.

Oggi, mentre Gaza brucia e Israele devasta il popolo palestinese con bombardamenti atroci e spietati, quel fantasma rischia di tornare. Ogni bomba sui civili, ogni bambino ucciso aspettando qualcosa da mangiare, ogni gesto di insensata punizione collettiva è un’arma consegnata nelle mani di chi predica vendetta. Il terrorismo islamico vive di disperazione, e mai come ora quella disperazione è tornata a gridare.

L’America lo sa, lo teme, lo percepisce come un incubo che si ripete. L’11 settembre non è stato un episodio isolato della storia: è stato l’inizio di una stagione che può tornare in qualsiasi momento. Basta guardare i segnali che arrivano dal Medio Oriente, dalle periferie dell’Europa, dalle reti sommerse che alimentano l’estremismo. Il rischio è enorme, e ignorarlo sarebbe suicida.

La verità è che l’Occidente non ha imparato nulla. Non ha capito che la violenza genera altra violenza. Non ha compreso che l’umiliazione dei popoli non porta sicurezza ma vendetta. Oggi, nel silenzio delle diplomazie e nella miopia delle leadership, stiamo preparando il terreno per un nuovo 11 settembre. Forse non negli stessi luoghi, non con le stesse modalità, ma con la stessa devastante ferocia.

Ricordare significa essere vigili, non autoassolversi. Se la memoria non diventa coscienza politica, è solo retorica. E di retorica ne abbiamo già troppa. Il mondo sta camminando sul filo di un abisso, e sembra non rendersene conto.