L’evento non è più, e forse non è mai stato, una festa soltanto. È diventato un atto di resistenza civile, uno strappo di futuro in una città che il premier vorrebbe ridurre al silenzio di una marcia vietata
Tutti gli articoli di Italia Mondo
PHOTO
C’è un confine invisibile che attraversa l’Europa e si ferma, ancora una volta, nel cuore di Budapest. Non è un filo spinato, non è un muro di cemento armato, ma un confine più ostinato: fatto di leggi che chiudono, parole che minacciano, divieti che soffocano. È qui, tra le rive del Danubio, che oggi sfileranno trentacinquemila persone per dire che un confine così non basta a fermare un diritto.
Il Pride di Budapest non è più, e forse non è mai stato, una festa soltanto. È diventato un atto di resistenza civile, uno strappo di futuro in una città che il premier Viktor Orbán vorrebbe ridurre al silenzio di una marcia vietata, di un popolo obbediente. Ma l’Europa – quella parola così logora e così urgente – ha deciso di esserci.
Il sindaco Gergely Karácsony lo dice senza infingimenti: «Questa non è più solo una marcia ungherese. Appartiene a tutta l’Europa». Perché se una bandiera arcobaleno non può sventolare a Budapest, allora non può sentirsi sicuro nessuno, da Madrid a Varsavia. Orbán, stretto tra la paura di perdere il controllo e la vanità di non cedere un centimetro, ha minacciato «conseguenze legali» per chi organizza e per chi sfila. Sulla carta, un anno di carcere. Nella sostanza, un monito antico: obbedite.
Ma i divieti a volte accendono ciò che vogliono spegnere. Così oggi scenderanno in strada non solo attivisti LGBTQIA+, ma parlamentari europei, sindaci, sindacalisti, artisti. Non ci saranno i popolari, ma c’è la voce di Ursula von der Leyen, che chiama in causa il cuore stesso dell’Unione: la libertà, la dignità, l’uguaglianza. Cose scritte nei trattati e scolorite nella cronaca, ma che tornano a vivere dove qualcuno prova a calpestarle.
Perché mentre Bruxelles predica diritti, dentro le sue mura siede anche Viktor Orbán, un sovranista che firma leggi per vietare Pride, mettere bavagli ai giornali, addomesticare giudici, spegnere la piazza. È anche questa la contraddizione che sfilerà oggi sulle rive del Danubio: un’Unione che festeggia i matrimoni gay in Spagna, ma può tollerare divieti e minacce in Ungheria.
Accanto ai passi dei manifestanti, cammina l’arte. All’alba, nel centro di Budapest, un manifesto di Laika – la street artist italiana mascherata – ha mostrato Orbán stesso, trasfigurato: un premier queer, una bandiera arcobaleno tra le mani, un sogno di ciò che non è e che forse non sarà. «La street art mostra l’impossibile», dice Laika. E nell’impossibile di questa immagine si riflette il possibile di una domanda: e se un giorno fosse diverso? Se davvero un’altra Ungheria fosse possibile?
Non è solo un poster. È una provocazione che morde, che rischia. Laika è venuta a Budapest «per rompere le scatole sul posto», per «lasciare un segno forte» mentre minacce e insulti dell’estrema destra le piovono addosso. «La democrazia – sussurra sotto la maschera – non è più scontata. I diritti umani non sono più scontati». E allora restano i corpi in strada, le mani intrecciate, i passi lenti di chi sa che a volte una marcia vale più di mille parole.
Oggi non sarà solo una sfida tra chi sfila e chi minaccia. Sarà un termometro di quanto ancora la parola Europa significhi libertà di essere, di amare, di dissentire. Un termometro che segna febbre alta. Da una parte una maggioranza europeista che a Bruxelles lancia moniti, dall’altra un governo sovranista che promette catene. In mezzo trentacinquemila esseri umani, un sindaco che non arretra e una città che non vuole più chinare la testa.
Forse è vero che la storia non si muove a colpi di slogan, né di poster. Ma la storia cammina: e oggi cammina travestita da parata, da carnevale, da Pride. Cammina quando la notte scende, quando la polizia chiude strade e i neonazisti sfilano a pochi metri, pronti a ringhiare. Cammina quando un artista, un insegnante, uno studente, un sindaco decidono di rischiare qualcosa. Cammina quando chi avrebbe potuto restare a casa decide di dire: io ci sono.
Budapest è il nome di questa sfida. Ma riguarda tutti noi. Perché se una marcia può essere vietata in un Paese che si chiama ancora Europa, allora nulla è più al sicuro: né le parole che pronunciamo, né le mani che stringiamo.
E se l’Europa resta ferma a guardare, se permette che le sue frontiere diventino muri interni, allora la parola Europa rischia di svuotarsi. Di diventare una promessa senza confine, un trattato senza voce.
E allora oggi, in mezzo a 35mila bandiere, a sfilare non saranno solo orgoglio e diritti. A sfilare sarà un’idea di Europa che non vuole morire.
Un’Europa che, per continuare a esistere, deve tornare a camminare. Anche quando qualcuno vorrebbe chiuderla in cella per un anno. Anche quando qualcuno minaccia. Anche quando la libertà costa.
E oggi, a Budapest, sarà chiaro a tutti che nessun confine, per quanto invisibile, potrà mai fermare una marcia.