Dal Teatro della Pergola al Festival di Santarcangelo, dai libri di scuola alle fondazioni, il nuovo corso della destra sembra inseguire un solo obiettivo: domare il dissenso. E dove non arriva con le censure, agisce con la fame
Tutti gli articoli di Italia Mondo
PHOTO
C’è chi parla di strategia, chi di vendetta ideologica. Ma qualunque sia l’intenzione, il risultato è sotto gli occhi di tutti: la cultura indipendente, scomoda, non addomesticata, sta diventando un bersaglio sistematico. I fondi pubblici, che dovrebbero garantire pluralismo e libertà, sono diventati uno strumento selettivo. Premiano chi rassicura, puniscono chi disturba.
La prima grande vittima eccellente è stata il Teatro della Pergola di Firenze. Un’istituzione culturale storica, diretta da Stefano Massini, autore applaudito in tutto il mondo. Il Ministero della Cultura, con un colpo secco e silenzioso, ha revocato al teatro lo status di Teatro Nazionale. Il che significa una decurtazione del 20% dei fondi pubblici. Un riordino, hanno detto. Ma la coincidenza con le posizioni pubbliche di Massini — apertamente critico verso l’attuale maggioranza — lascia pochi dubbi. Non è una revisione, è una punizione.
E se la Pergola è il primo segnale, il Museo Ginori è la conferma. Tomaso Montanari, storico dell’arte, presidente della Fondazione e nome inviso alla destra, è stato fatto fuori. Al suo posto, una figura priva di esperienza specifica nel settore, ma con ottimi contatti nel centrodestra. Anche qui, nessuna motivazione chiara. Solo un gesto forte, che somiglia tanto a un avvertimento: gli intellettuali liberi non servono più.
La vera arma usata per silenziare la cultura si chiama Fondo Unico per lo Spettacolo. Un nome tecnico, ma decisivo: da lì passano i finanziamenti che tengono in piedi teatri, festival, compagnie. Ed è lì che il Governo ha piazzato una nuova commissione, guidata da un avvocato vicino al sottosegretario Mazzi, per riscrivere i criteri di valutazione. Il risultato? Le produzioni che sperimentano, che provocano, che indagano l’attualità vengono penalizzate. Quelle che offrono un’immagine “positiva” e “tradizionale” dell’Italia ottengono più punteggio. La linea è chiara: la cultura deve essere docile, magari decorativa, ma mai disturbante.
L’esempio più clamoroso è quello del Festival di Santarcangelo, da anni uno dei più importanti laboratori di ricerca teatrale d’Europa. Il Ministero ha deciso di dimezzare il punteggio assegnato al festival nella valutazione triennale. Tradotto: la metà dei fondi. La motivazione ufficiale? Non all’altezza degli standard. Ma chi conosce la storia del festival sa bene che il problema non è la qualità, ma l’identità. Santarcangelo è pluralismo, rischio, provocazione. Esattamente ciò che l’attuale governo non vuole più finanziare.
Il direttore artistico Tomasz Kirenczuk ha usato parole precise: «Non c’è più spazio per il rischio culturale, per l’imprevisto, per la complessità». E il presidente Giovanni Boccia Artieri ha scritto un atto d’accusa che è anche un manifesto: «Un festival come Santarcangelo, che ha fatto della sperimentazione un atto politico, oggi diventa bersaglio».
Ma il controllo non si ferma alle scene. Colpisce anche la scuola. Il manuale Trame del tempo, pubblicato da Laterza, è stato attaccato dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara per il suo “punto di vista ideologico”. Tradotto: racconta la storia con sfumature non gradite al governo. L’editore ha replicato: «Siamo nell’anticamera della censura». E non è un’iperbole. Perché se la cultura deve passare prima dal filtro dell’ideologia dominante, non è più cultura, è propaganda.
Perfino le fondazioni culturali vengono colpite. La Fondazione Feltrinelli ha visto dimezzati i fondi nel triennio in corso. Nessuna spiegazione, nessun contraddittorio, nessuna verifica di merito. Solo un silenzioso “declassamento” dopo l’ascesa di Federico Mollicone alla presidenza della Commissione Cultura della Camera. Chi non suona nel coro del potere, resta senza microfono.
Il problema è sistemico. Non c’è bisogno di chiudere teatri, censurare film o impedire pubblicazioni. Basta “rivedere” i criteri, “aggiornare” le commissioni, “riorganizzare” le priorità. In nome dell’efficienza, si smantella il pluralismo. In nome del decoro, si stronca l’indipendenza. In nome della meritocrazia, si finanzia l’obbedienza.
È così che la cultura italiana rischia di diventare una cartolina senza nervi, un decoro patriottico, una vetrina identitaria. Il pensiero critico si fa colpa, la sperimentazione si fa vizio, la voce fuori dal coro si fa nemico.
Eppure è proprio in questo momento che bisogna resistere. Con alleanze nuove, coraggiose, trasversali. Tra artisti, enti locali, studenti, editori, cittadini. Perché la libertà culturale non è un lusso da intellettuali, è la spina dorsale di una democrazia sana. Senza dissenso, senza pluralismo, senza rischio, non c’è cultura. C’è solo intrattenimento.
E un Paese che intrattiene invece di pensare è un Paese che ha già smesso di essere libero.