La scena è da romanzo di costume italiano: Annamaria Bernardini De Pace, la “regina dei divorzi” che dieci anni fa definì Raoul Bova un “genero degenerato”, oggi si trasforma nel suo scudo legale. Allora, dopo che l’attore aveva lasciato sua figlia Chiara Giordano per la nuova compagna Rocío Muñoz Morales, l’avvocatessa lo aveva colpito con una lettera feroce sul Giornale, accusandolo di essere «vigliacco, ambivalente e manipolatore». Oggi il cerchio si chiude con un ribaltamento clamoroso: Bernardini De Pace difende proprio l’ex genero nell’offensiva legale contro Fabrizio Corona, indicato come il vero responsabile del massacro mediatico che ha travolto l’immagine dell’attore.

Bova ha deciso di passare al contrattacco. Il suo avvocato ha depositato al Garante della Privacy un reclamo formale, chiedendo la rimozione degli audio e dei messaggi privati finiti su YouTube, TikTok e altre piattaforme. Non solo: la richiesta di blocco riguarda anche parodie e meme che hanno trasformato in tormentone la voce privata dell’attore, destinata a una sola persona. «Oltre ai ricatti, nel momento in cui quelle chat e quegli audio sono stati diffusi vengono commessi altri reati, che hanno giustificato il nostro ricorso al Garante», ha spiegato Bernardini De Pace all’Ansa. «Raoul si è comportato da persona per bene, ha denunciato anziché pagare, come fanno la maggior parte dei personaggi famosi, consapevole del rischio di essere esposto alla gogna».

La storia, però, non è a senso unico. L’immagine di Bova, padre di famiglia, finisce triturata nel frullatore della rete, ma non senza responsabilità personali. Il cinquantenne dal fascino intatto si è lasciato attrarre dal brivido di una relazione segreta con Martina Ceretti, modella di trent’anni più giovane. Chat e messaggi vocali, qualche frase zuccherosa, tutto rigorosamente privato. Fino a quando la privacy è stata violata.

Tra l’11 e il 12 luglio l’attore ha ricevuto una raffica di messaggi da un numero spagnolo anonimo: un tentativo di estorsione in piena regola. «È un reato quello che stai facendo. Io non cedo», ha risposto lui, chiudendo ogni spiraglio al ricatto. Poi, il 25 luglio, il materiale privato è apparso sul canale YouTube Falsissimo, gestito da Fabrizio Corona. L’effetto domino è stato devastante: meme, parodie, persino gli account social ufficiali di Ryanair, Napoli e Torino hanno cavalcato l’onda dello sfottò.

Il tassello decisivo arriva dalle parole dell’imprenditore Federico Monzino, amico di Ceretti, che ammette di aver inviato a Corona il materiale «in buona fede», salvo poi pentirsene. La modella stessa avrebbe chiesto di bloccare tutto. Corona, però, ha deciso di pubblicare lo stesso, diventando di fatto l’esecutore materiale di un’operazione che la procura di Roma qualifica come tentata estorsione. Il dettaglio che lo inchioda è chiaro: gli era stato chiesto di non pubblicare, e lui lo ha fatto comunque.

Corona non è nuovo a simili vicende. I suoi precedenti per estorsione ai danni di vip gli sono già costati il carcere. La lezione, evidentemente, non è mai stata imparata. Ora la procura di Roma, con la pm Eliana Dolce, analizza ogni chat e valuta anche l’ipotesi di ricettazione: la diffusione di audio vocali privati senza consenso, ancor più se il consenso iniziale fosse stato ritirato, può configurare nuovi reati.

Resta da chiarire il ruolo della modella: complice o semplice pedina? Al momento, i tre protagonisti si accusano a vicenda. Ma un punto appare fermo: senza la pubblicazione di Corona, questa vicenda sarebbe rimasta confinata a un tentativo di ricatto.

Corsi e ricorsi storici, appunto. Bernardini De Pace, che nel 2013 bollò l’attore come traditore della figlia, oggi lo descrive come “un uomo che ha scelto di denunciare e difendere la propria dignità e quella dei suoi figli”. L’avvocatessa ora si muove su due fronti: da un lato la tutela dell’immagine familiare e la protezione dei minori coinvolti, dall’altro la richiesta al Garante di oscurare tutto ciò che è stato diffuso senza alcun diritto. Il procedimento è appena iniziato, ma il messaggio è chiaro: la gogna digitale non può essere un alibi per il vecchio vizio italiano di trasformare la vita privata dei vip in carne da macello.