La vendita di Repubblica da parte di John Elkann al gruppo greco degli Alafouzos rappresenta, secondo Carlo De Benedetti, non solo la fine di un capitolo editoriale, ma anche il simbolo di una trasformazione più profonda dentro l’impero della famiglia Agnelli. L’Ingegnere non usa giri di parole: “Lo fa anche per tenersi lontano dai magistrati. Vende i giornali per partire e lasciare l’Italia”, afferma nell’intervista concessa al Foglio.

Per oltre vent’anni editore del gruppo Espresso, De Benedetti sostiene che l’eredità dell’Avvocato si sia ormai dissolta: “La Fiat, la Juve, la Ferrari. Dopo questa storia di Repubblica per Elkann sarà difficile in Italia. Non ha consensi. Non è amato”. Da qui, la previsione: il numero uno di Exor sarebbe pronto a trasferirsi a New York, città in cui è cittadino americano per nascita. “Appena si chiude questa partita, parte. A Torino è già ai servizi sociali, come Berlusconi a Cesano Boscone”.

Il racconto dell’Ingegnere si fa più lento, quasi contemplativo, mentre nell’intervista al direttore del Foglio Clausio Cerasa dalla sua casa di Dogliani ricorda la figura di Gianni Agnelli, morto nel gennaio 2003. A differenza del nipote, dice, l’Avvocato aveva un patrimonio intangibile ma decisivo: l’amore e l’ammirazione popolare. “L’ammirazione, la benevolenza degli altri, sono un capitale. Non figurano nei bilanci, ma determinano tutto”. Lo dimostrò la vigilia dei funerali dell’Avvocato, quando “quattrocentomila torinesi salirono sul tetto del Lingotto per salutarlo”.

Quel tipo di rapporto con il Paese, sostiene De Benedetti, Elkann non è mai riuscito a costruirlo: “Se cammina per Torino, non lo saluta più nessuno”. E gli strumenti che per decenni avevano alimentato la popolarità degli Agnelli – Fiat, Juventus, Ferrari, giornali – oggi appaiono, nella sua analisi, logorati o indeboliti. La Juventus vive una crisi profonda, la Ferrari non ha vinto un gran premio nel 2025, Repubblica è stata “polverizzata e poi venduta a pezzi”.

Le responsabilità, per De Benedetti, sono chiare. Ricorda che i suoi figli, Marco e Rodolfo, cedettero a Elkann “il più grande gruppo editoriale della sinistra in Europa”: “Bastava tenerlo in piedi. Senza toccarlo. Senza chiedere nulla”. Anche l’ipotesi avanzata da Carlo Calenda – “Elkann comprò Repubblica per comprarsi Pd e Cgil” – viene bollata come un’operazione che, comunque, avrebbe richiesto semplicemente di gestire e non di destrutturare.

Nonostante le critiche feroci, De Benedetti riconosce una dote al presidente di Exor: “È bravo negli investimenti finanziari. Fa soldi vendendo e investendo nel web”. Cita l’esempio di Via, azienda tecnologica israeliana: “Un’azienda fantastica che gli ha fruttato molto”. Ma poi torna al nodo: la mancanza, secondo lui, di capacità gestionale. Lo dimostrerebbe una scelta che definisce assurda: aver affidato contemporaneamente Juventus e Repubblica alla stessa persona, “uno che non capiva nulla né di pallone né di carta. Un compagno di classe”.

Per contrasto, indica la fortuna del Corriere della Sera: la mancata scalata di Elkann. “Se l’avesse presa lui, sarebbe successa la stessa cosa che è successa a Repubblica. Cairo è bravissimo”.

Alla domanda se avesse mai pensato di riprendersi il giornale, De Benedetti risponde con una nota di realismo. “Ora va a un greco amico della Meloni. Sembra una barzelletta noir. Io? Ho novantuno anni. Ho la testa lucida, ma queste non sono più avventure per me”.

Resta, però, lo sguardo da tifoso su una Juventus che oggi gli procura “dolore”, e una scena domestica che chiude il colloquio: il movimento dei suoi cinque cani ai piedi della poltrona, mentre parla al telefono. L’immagine di un uomo che non cerca rivincite, ma rivendica la libertà di dire ciò che pensa. E la sua profezia finale è netta: “Elkann se ne andrà a New York, aspettate e vedrete”.