Dalla baracca di Torino al cuore delle battaglie contro le mafie, don Luigi Ciotti racconta la sua storia: l’infanzia difficile, il seminario a vent’anni, l’incontro con i più fragili, fino alle sfide della società di oggi. «Non mi fermo: il tempo dell’amore non lo stabilisco io, ma chi ha bisogno»
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Ottant’anni e la faccia scavata di chi non si è mai risparmiato. Don Luigi Ciotti ha passato la vita a macinare chilometri, incontri, parole e battaglie. Lo ha fatto senza mai smettere di ricordare le proprie radici: il Cadore, le Dolomiti, il mulino del nonno Pio Luigi. È lì che ha chiesto di essere riportato «quando verrà il momento, con la tomba rivolta agli Spòute de Tór», il gruppo montuoso che veglia sul borgo natio.
Nell’intervista al Corriere ricostruisce la sua storia, partendo dall’infanzia difficile. «Ero un bambino irrequieto. Mia mamma fu costretta a portarmi all’ospedale: avevo un taglio allo zigomo. Lei mi fermò l’emorragia piazzandomi sulla guancia una molletta da bucato». Poi Torino, con la famiglia costretta a vivere in una baracca dentro un cantiere. «Non osavo dirlo, a scuola, che vivevamo col pavimento in terra battuta. Eppure mio padre era grato a quella città, tanto da voler essere sepolto lì quando morì, a 99 anni».
Torino diventa la sua palestra di vita. «Mi ha dato tutto e io le ho dato tutto quello che potevo. Ma per tutta la vita mi sono rimaste dentro le mie montagne». Dalla Beata Vergine delle Grazie nasce la sua vocazione: non la chiamata precoce di un chierichetto, ma la scelta consapevole di un ventenne. «Non entrai in seminario dicendo: farò il sacerdote. Ma per vedere se poteva essere un percorso da fare. Sentivo il desiderio di spendermi per gli altri».
Da lì, l’esperienza con i ragazzi difficili, il Gruppo Abele, la convinzione che «il tempo dell’amore non viene stabilito da chi ama, ma da chi ha bisogno di essere amato». Una scelta radicale, senza sconti: «Mai creduto nella pacca-terapia. Hai sbagliato? Devi risponderne. Ma dentro ogni persona c’è qualcosa di buono». Ha conosciuto Edoardo Agnelli, con cui ha avuto un rapporto profondo. «Era un ragazzo gentile e fragile, con dentro una grande sofferenza. Veniva a parlarmi, mi scriveva lettere di duecento pagine. L’Avvocato era sollevato dal fatto che il figlio avesse questo rapporto con me. La solitudine può schiacciare».
Non sono mancate esperienze scomode, come l’incontro con Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina. «Mi disse: “Parrino, siamo cresciuti nell’Azione Cattolica”. Risposi: “Anche io, ma abbiamo preso strade diverse”. Lei aggiunse: “Preghiamo tanto”. Io le risposi: “Forse un po’ meno, ma ho sempre pensato che la preghiera è tradurre le parole in fatti”». Un impegno che gli è costato minacce e scorta da decenni. «Tutto iniziò quando capii che ogni morto di droga era un morto di mafia. Da lì gli avvertimenti, le intercettazioni, il rischio che qualcuno...». Una vita sempre in bilico, ma senza arretramenti. «Dobbiamo essere custodi dei nostri fratelli e sorelle meno fortunati. Poveri non sono solo quelli senza soldi: ci sono povertà esistenziali che chiedono aiuto».
Negli anni ha conosciuto anche grandi industriali. «Una volta scrissi a Leonardo Del Vecchio per chiedergli una mano. Non mi rispose. So che era una brava persona, con una forte etica del lavoro». Racconta con orgoglio anche la vita di suo padre Angelo, emigrato a quattordici anni per lavorare nei cantieri del Sud: «Questa terra era così povera che negli anni Venti andarono in Calabria. Mio padre raccontava sempre con affetto quelle donne calabresi generose col ragazzino che portava calderelle più grandi di lui».
Sulle mafie, nessuna illusione. «Certo che ci sono ancora. L’ultima mafia è sempre la penultima, perché si rigenerano. Tocca a noi rigenerarci. Mafia e corruzione vanno a braccetto. Il ponte di Messina? Ho detto che rischia di unire due cosche invece che due coste, e ne sono convinto». Restano la sua delusione per la frenata vaticana sulla scomunica dei mafiosi e la convinzione che «la conversione è possibile, anche nella ’ndrangheta».
Non è equidistante, ma «equivicino»: «Ho a cuore sia il diritto di Israele a esistere sia il diritto dei palestinesi a non essere annientati. Quando vedi bombardare ospedali, scuole, tendopoli, come si fa a non parlare di genocidio?». La sua è la voce di un eretico nel senso più autentico del termine. «Vi auguro di essere eretici. Eretico vuol dire colui che sceglie, che più della verità ama la ricerca della verità». È questo il senso dei suoi ottant’anni: un uomo cosciente delle proprie fragilità ma incapace di arrendersi. E mentre guarda alle Dolomiti, all’occhialeria della madre, al mulino del nonno travolto dal progresso, confessa: «Così era il mulino. E ti abitui tanto al rumore delle pale che, se si fermano, ti svegli di soprassalto. Per il silenzio». Ottant’anni, e nessuna voglia di fermarsi. «Il tempo dell’amore non lo stabilisco io, ma chi ha bisogno».