Gli editori chiedono l’intervento dell’Antitrust Ue contro le nuove funzioni di intelligenza artificiale: «Così il motore di ricerca uccide il traffico verso i siti e guadagna sui nostri contenuti»
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La sede di Google
Altro che battaglie sul copyright. L’ultima guerra degli editori contro Google si combatte su un altro fronte: quello della concorrenza. A innescarla è stata la Independent Publishers Alliance, coalizione di media europei indipendenti, che ha deciso di portare il colosso di Mountain View davanti alla Commissione europea. L’accusa è pesante: “abuso di posizione dominante” e sfruttamento illecito dei contenuti prodotti dalle testate giornalistiche, attraverso le funzionalità di intelligenza artificiale recentemente introdotte nel motore di ricerca.
Si tratta di un’escalation che segna un cambio di passo rispetto al passato. Non si punta più solo sul copyright (come sta facendo il New York Times negli Stati Uniti contro OpenAI e Microsoft), ma si chiama in causa l’Antitrust europeo, che ha il potere di imporre restrizioni e sanzioni in caso di pratiche anticoncorrenziali. Il cuore del problema si chiama Ai Overviews, il sistema lanciato da Google a marzo – già attivo anche in Italia – che mostra in cima ai risultati di ricerca un riquadro generato dall’IA: un riassunto che risponde direttamente alla domanda dell’utente, sintetizzando le informazioni tratte dai principali siti web.
Il punto è proprio questo: quei contenuti sono estratti senza autorizzazione, e chi cerca un’informazione ormai non ha più bisogno di cliccare su alcun link. Risultato? I siti non vengono visitati, il traffico crolla, la pubblicità si affossa. E Google, nel frattempo, guadagna mostrando anche annunci all’interno dei suoi snippet IA, introdotti ufficialmente da maggio 2024. È questo il cortocircuito che gli editori denunciano: “Fanno soldi con il nostro lavoro, mentre noi moriamo di fame”.
La denuncia ufficiale depositata a Bruxelles parla chiaro: “Google sta abusando dei contenuti web per generare panoramiche IA, provocando gravi danni economici agli editori, inclusa la perdita di lettori, visibilità e ricavi pubblicitari”. Ancora più grave, dicono, è che non esiste alcuna possibilità di opt-out: chi prova a bloccare i propri contenuti per l’IA, rischia automaticamente di sparire anche dai risultati organici del motore di ricerca.
Un meccanismo descritto come una vera e propria “trappola” digitale, che costringe gli editori a subire o a sparire. Nella denuncia si legge testualmente: “Gli editori che usano Google Search non possono rifiutare l’uso dei propri contenuti per le risposte IA senza perdere anche la propria presenza nei risultati generici”.
Alla protesta dell’Independent Publishers Alliance si sono uniti anche il Movement for an Open Web – una rete di editori e inserzionisti digitali – e il gruppo legale Foxglove, da tempo impegnato nella difesa della trasparenza tecnologica. La richiesta è drastica: una misura urgente dell’Antitrust Ue che blocchi questa pratica prima che diventi strutturale.
E i dati, intanto, parlano da soli. Secondo Similarweb, da aprile 2022 ad aprile 2025, testate come Business Insider hanno perso il 55% del traffico organico da Google. HuffPost è a -40%, il Daily Mail a -32%, CNN.com al -28%. Tra i 50 principali siti d’informazione mondiali, ben 37 hanno visto crollare il traffico in coincidenza con l’introduzione delle risposte IA. La stima più cauta fissa il calo tra il 15% e il 64%, a seconda dei settori.
Ma il punto non è solo numerico. È filosofico e giuridico. Il dibattito si sposta ora sul campo delle regole: in Europa, infatti, l’uso dei contenuti da parte dell’IA (il cosiddetto text and data mining) è consentito solo per fini scientifici, a meno che l’editore non abbia espresso esplicitamente un opt-out leggibile dalle macchine. Un’opzione legale e tecnica che esiste, ma che – denunciano – Google non rende realmente efficace, penalizzando chi la esercita.
“Così si crea un cortocircuito tra diritto e algoritmo”, spiega l’esperto di copyright Luciano Daffarra. “In Europa le regole ci sono, ma Google se ne frega. E alla fine ci piegheremo al volere degli Usa, dove le Big Tech si proteggono dietro il fair use”. Una deriva che rischia di diventare inevitabile: “L’Europa – continua Daffarra – non ha strumenti alternativi e finirà per accettare l’interpretazione americana, secondo cui prendere dati altrui è lecito se serve a far funzionare un modello di IA. È il modo più elegante per chiamare furto quello che è furto”.
In attesa che la Commissione europea si esprima, anche l’Antitrust britannico ha aperto un’indagine sul potere dominante di Google nei settori della ricerca e della pubblicità. E negli Stati Uniti sono già partiti altri procedimenti, come quello avviato da una tech company del settore education, che accusa le risposte IA di “uccidere la domanda di contenuti originali”.
Dal canto suo, Google minimizza: “Le nostre IA portano miliardi di clic ai siti ogni giorno. Le fluttuazioni di traffico dipendono da mille fattori, non dalle nostre tecnologie”. Il portavoce aggiunge: “I nuovi strumenti aiutano gli utenti a scoprire contenuti. Le critiche si basano su dati parziali”. Ma a quanto pare, sono sempre più numerosi quelli che non ci credono più.