Giorgia Meloni non fa proclami, ma osserva, ascolta, valuta. E oggi che la Chiesa si prepara a eleggere un nuovo pontefice, l’interesse di Palazzo Chigi per il Conclave è tutt’altro che neutrale. Papa Francesco, negli anni, ha saputo conquistare una certa fiducia da parte della premier, che all’inizio lo guardava con sospetto, legata com’era alla figura di Giovanni Paolo II e al rigore dottrinale di Benedetto XVI. Ma il rispetto non cancella le divergenze, e il desiderio di un cambiamento di rotta è palpabile.

A fare da cerniera tra l’esecutivo italiano e il Vaticano c’è Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, uomo della destra cattolica, ex presidente della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre”, profondo conoscitore della Curia. È lui che, lontano dai riflettori, tesse rapporti, raccoglie impressioni, valuta alleanze. È lui, soprattutto, che tiene aperti i canali con quella parte del Collegio cardinalizio che desidera una discontinuità netta rispetto all’“epoca Francesco”.

Il nome che circola con più insistenza a Palazzo Chigi è quello dell’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori. Ex segretario generale della Cei ai tempi di Camillo Ruini, Betori incarna l’identikit ideale del Papa sognato da Meloni: saldo nella dottrina, critico verso l’immigrazione, alieno dalle aperture bergogliane su omosessualità, famiglie non tradizionali e sinodalità. Uomo riservato, ma ben connesso nella gerarchia, ha conservato un peso specifico importante pur restando distante dalle luci della ribalta.

Mantovano non si limita a suggerire nomi: dialoga con figure come Mauro Piacenza e Angelo Bagnasco, ex cardinali elettori ma ancora influenti nel sistema delle cordate. Tutti fedeli alla scuola di Ruini, il vero tessitore delle reti conservatrici che tornano ora a sognare un pontificato “di restaurazione”.

Chi conosce bene le dinamiche interne sa che Meloni non tiferà pubblicamente per nessuno. Ma se interrogata in privato, non esiterebbe a confidare che un pontefice più vicino alle sue sensibilità – sul piano morale, culturale e anche geopolitico – potrebbe rappresentare un’ottima notizia per il governo italiano.

Non si fa mistero neppure dell’antipatia per l’altro grande nome che circola nel Conclave: Matteo Zuppi. L’arcivescovo di Bologna, presidente della Cei, volto della mediazione e della pace, è troppo “progressista” per il governo Meloni. Le sue dichiarazioni sui migranti, le sue prese di posizione contro l’omotransfobia, persino il suo richiamo alla Resistenza il 25 aprile entrando in Vaticano, lo rendono inviso alla destra che spera in un Papa più “tradizionale”.

Così, tra preghiere pubbliche e strategie riservate, si guarda con interesse anche a una possibile “terza via”: quella di Pietro Parolin. Il Segretario di Stato vaticano, uomo di equilibrio, stimato diplomatico, figura più dialogante e meno divisiva, è considerato da Palazzo Chigi un possibile compromesso accettabile. Parolin ha servito fedelmente Francesco, ma senza mai sbilanciarsi sul terreno delle grandi riforme. E proprio questa cautela lo rende compatibile con il desiderio di “normalizzazione” che si respira in certe stanze romane.

Certo, il Papa lo sceglieranno i cardinali. Ma in un Vaticano dove politica, diplomazia e fede convivono da secoli, anche un filo che parte da Palazzo Chigi può avere la sua influenza. Soprattutto se a tenderlo è un uomo come Mantovano.