Il primo viaggio internazionale di Papa Leone XIV si apre in un contesto che difficilmente potrebbe essere più complesso. Sei giorni tra Turchia e Libano, due Paesi che oggi rappresentano linee di frattura e, allo stesso tempo, punti di contatto tra religioni, geopolitica e memorie storiche. Robert Francis Prevost, il pontefice nato a Chicago diventato Papa a marzo, comincia da Ankara, dove arriva in mattinata per l’incontro con Recep Tayyip Erdogan. Da qui il viaggio prosegue a Istanbul e poi a Beirut, in un itinerario pensato per intrecciare dialogo interreligioso e sensibilità diplomatica in un Medio Oriente nuovamente attraversato dalla guerra.

Il programma parte da un terreno simbolico fortissimo: l’anniversario dei 1700 anni del Concilio di Nicea. Domani, nella città di Iznik, Leone XIV presiederà un incontro ecumenico insieme ai rappresentanti delle Chiese d’Oriente, in un momento in cui l’unità dell’Ortodossia è messa alla prova dal conflitto tra Mosca e Costantinopoli. L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti incrinato gli equilibri già fragili tra il patriarcato ecumenico e quello di Mosca, e questa tensione ha riverberato i suoi effetti anche sulle altre Chiese cristiane. L’omaggio a Nicea, dunque, non è soltanto una commemorazione, ma un tentativo di riallacciare fili lacerati da due anni di conflitto e da un clima internazionale sempre più instabile.

Il viaggio tocca poi uno dei luoghi più emblematici del rapporto tra religioni: la “moschea blu” di Istanbul, che Leone XIV visiterà sabato. Seguiranno l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli e la messa per la comunità cattolica turca. Prima di lasciare la Turchia, il Papa farà tappa alla cattedrale armena di Istanbul, segnale di attenzione verso un cristianesimo minoritario e spesso marginalizzato, ma parte integrante della storia religiosa della regione.

Dal 30 novembre l’attenzione si sposterà sul Libano, dove Leone XIV è atteso con un misto di speranza e timore. È l’unico Paese del Medio Oriente in cui i cristiani rappresentano circa il 30 per cento della popolazione e hanno un ruolo istituzionale pari a quello delle comunità musulmane sunnite e sciite. Un equilibrio fragile, più volte messo a rischio dalla crisi politica che ha lasciato il Paese senza presidente per due anni, fino all’elezione di Michel Aoun lo scorso gennaio. Papa Francesco aveva programmato un viaggio breve, rinviato a causa dell’incertezza politica; Leone, ereditando la missione, ha scelto un itinerario più ampio, che culminerà con l’incontro interreligioso dell’1 dicembre.

Martedì 2 dicembre il Papa si fermerà nel porto di Beirut, devastato dall’esplosione del 4 agosto 2020, e celebrerà messa sul lungomare. È una tappa che non ha bisogno di spiegazioni: la ferita del porto è ancora aperta, simbolo di un Paese che cerca giustizia mentre continua a lottare contro crisi economica, instabilità e tensioni regionali.

A fare da sfondo, però, c’è una sicurezza precaria. Le preoccupazioni sono cresciute dopo il raid israeliano del 23 novembre, che ha ucciso un alto funzionario di Hezbollah. Il quotidiano L’Orient Le Jour ha persino chiesto ai lettori se ritenevano probabile un annullamento del viaggio. Dal Vaticano, però, arrivano rassicurazioni: «Si sono prese tutte le precauzioni ritenute necessarie», ha affermato il portavoce Matteo Bruni. Eppure il clima resta incerto. Un video circolato in rete mostra la regina Rania di Giordania chiedere al Papa, durante una foto in Vaticano, se ritenga sicuro viaggiare in Libano; Prevost risponde sottovoce: «Well, we’re going». Un segnale di determinazione, ma anche della consapevolezza del rischio.

La visita suscita reazioni diverse da un capo all’altro della regione. In Libano alcuni gruppi sollecitano il Papa a visitare il sud del Paese, la zona più colpita dai raid israeliani. In Turchia, al contrario, piccoli gruppi nazionalisti protestano parlando di un “complotto ecumenico americano”, una retorica che riemerge ciclicamente ogni volta che il Vaticano si muove in un’area politicamente sensibile.

Il viaggio è anche un banco di prova per la figura stessa di Leone XIV. Più riservato del suo predecessore, ma con una storia personale intensa da missionario in Perù, da priore degli agostiniani e da viaggiatore instancabile, il nuovo Papa ha dichiarato apertamente che viaggiare gli è sempre piaciuto. Le richieste di accredito per questa visita confermano l’interesse: circa ottanta giornalisti seguiranno la missione, tra cui tutti i principali network statunitensi. E per la prima volta i discorsi papali saranno tenuti in inglese e francese, non in italiano, una scelta che rispecchia la formazione del Pontefice e la volontà di parlare a un pubblico globale.

Il dialogo interreligioso rimane il filo rosso. In Medio Oriente, dopo il 7 ottobre e l’offensiva israeliana su Gaza, i rapporti tra musulmani, ebrei e cristiani sono diventati più tesi. Il mondo musulmano ha apprezzato gli appelli del Papa alla tregua umanitaria, mentre con la galassia ebraica si sono moltiplicati gli attriti. La missione in Turchia e Libano tenterà di rimettere in circolo parole e gesti che possano riaprire spazi di ascolto, anche se il contesto attuale rende ogni tentativo più difficile.

E nel cuore di tutto questo rimane Nicea. Il Concilio del 325, convocato dall’imperatore Costantino e non dal Papa dell’epoca, Silvestro I, rappresenta il momento in cui la Chiesa definì collettivamente la propria identità teologica. Come ricorda Luigi Sandri nella storia dei Concili “Dal Gerusalemme I al Vaticano III”, la disputa ariana sarebbe rimasta marginale se non fosse diventata un tema di dibattito pubblico, capace di dividere l’Oriente cristiano. Nicea sancì il Credo che, pur con aggiunte successive, resta ancora oggi la professione di fede comune ai cristiani di tutto il mondo. Un atto di unità in mezzo alle divisioni: una lezione che, a quasi due millenni di distanza, il viaggio di Leone XIV tenta di far risuonare in un tempo che sembra aver smarrito il linguaggio stesso dell’incontro.