L’eredità del conflitto con l’Iran è una vittoria tattica, ma senza affrontare il nodo della Striscia di Gaza non potrà mai esistere una vera pace. Intanto l’Europa osserva e tace
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Middle East Images/ABACA
La tregua tra Israele e Iran, dopo i dodici giorni di guerra più intensa della storia recente, tiene a fatica. Nonostante l’annuncio di cessate il fuoco, confermato sia da Teheran che da Tel Aviv, il Medio Oriente continua a oscillare tra calma apparente e ritorno alla violenza. La comunità internazionale guarda con sollievo temporaneo, ma per Israele la vera sfida resta interna: garantire sicurezza e stabilità senza affrontare, una volta per tutte, il nodo palestinese.
L’analisi degli osservatori più attenti, incluso Michael Milshtein – ex analista del Mossad – è netta: anche se l’offensiva ha colpito duramente il programma nucleare iraniano, Israele non sarà mai davvero al sicuro senza una soluzione credibile e duratura al conflitto con i palestinesi. Ritirarsi da Gaza, ridefinire la presenza in Cisgiordania, affrontare il peso delle violazioni dei diritti umani e rimettere in moto un processo politico oggi congelato: sono questi i punti centrali che nessuna vittoria militare potrà aggirare.
Un sistema democratico sempre più fragile
Israele, nel frattempo, continua a perdere pezzi del suo stesso sistema democratico. La carneficina a Gaza – con centinaia di vittime civili, molti dei quali minorenni – non trova giustificazioni militari convincenti. Le proteste interne diminuiscono, soffocate anche da misure autoritarie. La Knesset ha sospeso il parlamentare arabo Ayman Odeh per aver definito “sequestri di persona” gli arresti amministrativi in Cisgiordania, privi di accuse e prove. Intanto, il ministro Ben-Gvir ha ordinato di arrestare chi guarda Al Jazeera, televisione qatariota già espulsa da Israele.
Il risultato è un sistema che si allontana sempre più dai canoni dello stato di diritto liberale e si avvicina a una “democrazia maggioritaria” dai tratti autoritari. L’apparente trionfo di Israele sul fronte iraniano, con il supporto diretto degli Stati Uniti di Trump, rischia di offuscare le contraddizioni interne e le cause profonde di instabilità.
L’Europa assente e il pragmatismo che sa di complicità
Il dibattito in Europa è segnato da ambiguità. Il massacro a Gaza è stato definito “inaccettabile” da più governi, tra cui quello italiano, ma l’inazione diplomatica lo rende nei fatti accettato. Proposte come quella spagnola di sospendere l’accordo di cooperazione Ue-Israele restano bloccate da Paesi come Italia, Germania e Ungheria. Il ministro Tajani si dichiara “pragmatico”, ma le principali ONG per i diritti umani parlano apertamente di “complicità europea”.
La questione palestinese diventa quindi una variabile geopolitica sacrificabile in nome di alleanze strategiche e interessi energetici. Israele è visto da molti governi come un “asset”: baluardo contro l’Iran, contenimento dell’islamismo, presidio militare nel Mediterraneo orientale. Ma cresce anche la percezione opposta: quella di uno Stato che, incapace di chiudere le guerre che apre, alimenta un’instabilità permanente con conseguenze anche per l’Europa.
Senza Palestina non c’è pace possibile
La fine delle ostilità con l’Iran potrebbe regalare a Israele un temporaneo vantaggio militare e geopolitico. Ma la pace vera, duratura e condivisa, non potrà esistere finché i palestinesi saranno lasciati in un limbo di violenza, esclusione e disperazione. Ogni tregua è destinata a spezzarsi finché Gaza resterà una prigione a cielo aperto, finché l'occupazione in Cisgiordania continuerà, finché il diritto internazionale sarà calpestato.
Israele ha bisogno, oggi più che mai, di una svolta politica e morale. Per sé e per il Medio Oriente. Finché ciò non avverrà, continuerà a vincere le guerre e a perdere ogni possibilità di pace.