In Italia un milione e trecentomila bambini vivono in povertà assoluta. Significa che un minore su sette – il 13,8% – cresce senza le opportunità minime per apprendere e costruirsi un futuro. È un numero che fa tremare i polsi: in dieci anni la percentuale è quasi raddoppiata, con un incremento del 47%. Lo ha certificato lo studio sulla povertà educativa presentato al Forum Teha di Cernobbio con il contributo della Fondazione CRT e la guida scientifica di Maria Chiara Carrozza, già ministra dell’Istruzione.

La fotografia scattata dai ricercatori non lascia spazio a ottimismo. Nel 2024, il 23,1% degli italiani era a rischio di povertà educativa ed esclusione sociale, un dato che ci colloca al settimo posto tra i peggiori in Europa. Il problema non riguarda solo il sociale: il costo stimato in termini economici equivale a 170 miliardi di Pil mancato, pari al 9% del totale nazionale, e 3,2 milioni di posti di lavoro che non sono stati creati.

La povertà educativa, spiegano gli esperti, non è solo questione di reddito familiare. Significa dispersione scolastica, divari territoriali, accesso diseguale al digitale e carenza di competenze. Quasi un giovane su dieci ha lasciato prematuramente gli studi, il 15,2% tra i 15 e i 29 anni è Neet – senza lavoro né formazione – e appena il 31,6% dei 25-34enni è laureato: peggio di noi solo un altro Paese nell’Unione. Con effetti immediati: oggi mancano 2,2 milioni di lavoratori qualificati, mentre oltre il 40% delle offerte di lavoro richiede competenze digitali avanzate.

Il Mezzogiorno resta la zona più fragile. Calabria e Campania sono tra le regioni europee con la più alta incidenza di povertà ed esclusione sociale: quasi un cittadino su due in Calabria (48,8%), il 43,5% in Campania. Seguono Sicilia (40,9%), Puglia (37,7%), Sardegna, Molise, Lazio e Basilicata, tutte sopra la media nazionale. Il divario con il Nord è abissale: 40 punti percentuali separano il Trentino Alto Adige dalla Calabria. «La vera emergenza del Paese è il capitale umano», ha osservato Carrozza, avvertendo che senza un piano strutturale l’Italia rischia di restare ai margini dello scenario globale.

Alla fragilità educativa si somma la crisi demografica. Dal 1990 a oggi i bambini sotto i cinque anni sono diminuiti del 40%, mentre la popolazione straniera residente è aumentata di quindici volte. In un Paese che invecchia, il combinato disposto tra denatalità e povertà educativa diventa esplosivo. Come ha ricordato il presidente Sergio Mattarella, la dispersione scolastica e l’abbandono aprono la strada all’esclusione sociale e, nei casi peggiori, a circuiti criminali: «Si innesca un circolo vizioso che compromette di generazione in generazione le possibilità di crescita».

Contrastare la povertà educativa significa dunque contrastare la povertà tout court. Secondo Teha Group, formare almeno il 20% dei lavoratori meno istruiti basterebbe a colmare gran parte del gap di competenze. Non a caso molti Paesi, dal Giappone al Messico, hanno adottato strategie nazionali specifiche. Per l’Italia la sfida si gioca anche sull’utilizzo dei fondi del Pnrr: costruire un piano stabile che metta in rete scuola, welfare, imprese e società civile, trasformando l’istruzione da costo a investimento.

Il messaggio che arriva da Cernobbio è chiaro: non è questione di beneficenza, ma di competitività. La povertà educativa non riguarda solo i bambini che restano indietro, ma il rischio concreto di un’Italia meno capace di crescere, innovare e competere. Il capitale umano, l’unico davvero non replicabile, è la risorsa che oggi stiamo perdendo.