Francesco Lollobrigida rilancia l’agroalimentare italiano, ma lo fa da una prospettiva che ha sorpreso molti osservatori. Intervenuto al forum “in Masseria” di Bruno Vespa a Manduria, il ministro dell’Agricoltura ha spiegato una possibile strategia per rispondere alla minaccia dei dazi americani, in particolare quelli che potrebbero colpire i prodotti europei fino al 17%. La proposta? Utilizzare carne statunitense per produrre salumi italiani destinati al mercato americano, seguendo i loro modelli alimentari.

«Non possiamo accettare la carne ormonata degli Stati Uniti, sulla salute non si transige – ha dichiarato Lollobrigida – ma esistono le importazioni vincolate». Una formula che sembra fatta per aggirare l’ostacolo: importare materia prima dagli USA, trasformarla in Italia seguendo le loro regole, e poi reimmetterla sul mercato americano. Un’idea che non riguarda la produzione destinata ai consumatori italiani, ma che servirebbe – almeno nelle intenzioni – a evitare la guerra dei dazi e mantenere buone relazioni commerciali con Washington.

«Importiamo già il 90% della carne utilizzata per produrre la bresaola – ha aggiunto – Se iniziamo a prendere anche la loro, possiamo produrre per il loro mercato, con il loro modello alimentare. Io non la consiglierei ai nostri consumatori, ma è un'opzione».

Parole che hanno acceso il dibattito. Non tanto per il principio in sé – che rientra nelle logiche di mercato internazionale – quanto per la portata simbolica della proposta. Per anni, infatti, il ministro si è fatto paladino del cibo italiano autentico e non alterato, criticando apertamente la carne con ormoni o Ogm. Ora, però, la necessità di tenere aperti i canali commerciali sembra portare a una posizione più pragmatica, se non proprio contraddittoria.

Lollobrigida ha specificato che l’obiettivo è valorizzare le eccellenze italiane anche nei contesti più difficili. «Ci sono accordi bilaterali che ci possono aiutare a superare vincoli che non possiamo accettare – ha spiegato – ma dobbiamo essere intelligenti nel proporre alternative». E qui entra in gioco il tema della reciprocità commerciale: «Esportiamo otto miliardi di euro in agroalimentare verso gli Stati Uniti, ma da loro importiamo solo per 1,7 miliardi. Questo squilibrio alimenta tensioni e reazioni tariffarie che, pur non condividendo, dobbiamo comprendere».

Nel ragionamento del ministro non manca nemmeno un riferimento alla soia, altra voce importante degli scambi globali: «La importiamo in grandi quantità da Argentina e Brasile. Solo un sesto arriva dagli USA. Anche su questo fronte possiamo aprire spazi nuovi».

Se dal punto di vista diplomatico la proposta si presenta come un tentativo di smussare le tensioni con l’amministrazione americana – in vista delle elezioni e di un possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca – sul piano interno rischia di aprire più di una crepa. I produttori di bresaola della Valtellina, i consorzi di tutela e i promotori del “made in Italy” autentico potrebbero guardare con sospetto a un piano che, seppure limitato all’export, normalizzerebbe l’uso di carni con standard sanitari diversi da quelli europei.

La posizione del ministro è comunque chiara: la salute dei cittadini italiani non verrà mai messa in discussione. E la carne trattata con ormoni non sarà mai destinata ai nostri mercati. Ma nel complesso resta un interrogativo: è possibile difendere l’identità del nostro cibo aprendosi, al contempo, a compromessi così marcati per ragioni economiche?

Nel gioco complicato dei commerci globali, la risposta non è semplice. Ma la sensazione è che da qui a settembre – quando entrerà nel vivo il tavolo bilaterale tra Italia e Stati Uniti – il tema sarà al centro di altre polemiche. E altre idee, magari meno controverse, potrebbero prendere il posto della “bresaola americana”.