Una recente indagine giornalistica ha portato alla luce due disegni attribuiti a Valerio Morucci, membro della colonna romana delle Brigate Rosse, che potrebbero rappresentare la mappa della prima prigione di Aldo Moro. L’analisi di questi ha portato all’ipotesi che la prima detenzione di Moro sia avvenuta in un cantiere di proprietà del Vaticano. Qualcuno nella Chiesa sapeva dell’imminente sequestro?

A quarantasette anni dal suo assassinio, nuovi indizi emersi da un’inedita indagine giornalistica vedrebbero la complicità del Vaticano nel sequestro. Ciò ci impone di tornare con la memoria a quei 55 giorni di prigionia e raccontare quando, come e perché nel 1978 le Brigate Rosse decisero di rapire e uccidere Aldo Moro.

Anni di piombo

Alla fine degli anni Settanta, l’Italia veleggia drammaticamente verso una folle deriva sanguinaria senza sbocchi. Nella difficile e soffocante aria che si respira nel Paese, le strade e le piazze italiane continuano a riempirsi di corpi di vittime innocenti. Non si contano più gli scontri tra polizia ed estremisti di destra o di sinistra.

Il Paese è sull’orlo del collasso e si spacca in due anche sul referendum che vorrebbe abolire il divorzio. Per i democristiani, la vittoria del “No” è un duro colpo, capace di far traballare la poltrona di Fanfani. Le donne, invece, festeggiano un passo cruciale nell’evoluzione sociale e giuridica del Paese. Infatti, si tratta di un traguardo storico che annuncia una nuova stagione di conquiste che tra non molto si tradurranno nella libertà di abortire legalmente.

Il Compromesso storico

Il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer lancia la proposta del «Compromesso Storico», cioè di una grande alleanza con il nemico politico di sempre: la Democrazia Cristiana, per garantire la democrazia nel Paese. Il timore è che anche qui da noi possa verificarsi un drammatico golpe come quello che ha appena ordito Augusto Pinochet in Cile ai danni di Salvador Allende.

Nel 1976, l’Italia sportiva si ritrova al centro del dibattito politico internazionale. Una controversa edizione della Coppa Davis si svolge nella patria del dittatore cileno. Il torneo diventa un caso mediatico quando i sovietici, giunti in semifinale, si rifiutano di affrontare i padroni di casa «nello stadio della morte» dove Pinochet rinchiude e tortura i suoi oppositori.

La denuncia contro i cileni coinvolge anche la squadra italiana che nel frattempo ha raggiunto la finale. La stampa della sinistra extraparlamentare cavalca l’onda dell’indignazione e chiede di boicottare la partita. Si scatena il dibattito: giocare o non giocare? Adriano Panatta, reduce da una grande stagione in cui ha già trionfato a Roma e a Parigi, decide di scendere regolarmente in campo insieme al suo compagno Paolo Bertolucci. Ma lo fanno indossando una maglietta rossa, il colore del socialismo, come simbolo di protesta e presa di posizione contro l’odiato dittatore.

La vittoria della Coppa Davis rappresenta così l’apice della saldatura tra lo sport e il Movimento di protesta operaia. Un connubio che ha preso forza dalle ultime elezioni politiche in cui, per la prima volta, il Partito Comunista ha superato gli undici milioni di voti e minacciato la leadership della Democrazia Cristiana. L’angoscioso dubbio elettorale che per settimane ha pervaso il Paese è aggravato da un quadro socio-economico in costante peggioramento: prezzi delle case in rialzo, disoccupazione dilagante, scioperi, un terrificante terremoto in Friuli e il ritorno delle Brigate Rosse che si stanno preparando a compiere il loro progetto più ambizioso.

16 marzo

Roma, primavera 1978. Mentre alla Camera inizia la cerimonia di presentazione del quarto governo di Giulio Andreotti, quattro uomini delle Brigate Rosse, travestiti da avieri civili e armati di mitragliatrici, eseguono un agguato contro l’onorevole Aldo Moro in via Fani, a pochi chilometri di distanza da Montecitorio.

Il presidente della Democrazia Cristiana sopravvive alla brutale scarica di colpi, che invece annientano i cinque agenti della scorta. In meno di due minuti, i brigatisti Raffaele Fiore e Mario Moretti prelevano Moro dall’auto su cui viaggiava e lo fanno salire su una Fiat 132. Al volante c’è Bruno Seghetti, il quale imbuca velocemente via Stresa e sparisce tra le strade del quartiere Trionfale.

La notizia del sequestro Moro giunge rapida come il vento nel palazzo di Montecitorio, dove nel frattempo si sta consacrando il governo che lui stesso si era «tanto adoperato a costruire». Francesco Cossiga, ministro dell’Interno, istituisce immediatamente due comitati di crisi: uno di informazione, l’altro tecnico e operativo. Sono diretti da un famigerato «comitato di esperti», di cui ne fanno parte eminenti psichiatri e criminologi, tutti iscritti alla loggia massonica della P2.

Il Procuratore generale della Repubblica di Roma, Giovanni De Matteo, pretende nuovi strumenti legislativi per avviare le indagini e rinforzare la caccia ai brigatisti. Evidentemente, la fresca riforma dei Servizi segreti italiani (Sismi e Sisde) e la nascita dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali non gli sono bastate.

Comincia così uno dei periodi più torbidi della storia italiana. Cinquantacinque giorni terrificanti, vissuti dal Paese con sorpresa e sgomento tra la febbrile speranza del rilascio e le infinite polemiche sulla trattativa.

17 marzo

Le prime reazioni mediatiche e politiche al rapimento Moro sono di unanime condanna al terrorismo. Ma già al mattino seguente, il Paese si divide in due: il fronte della fermezza contro quello del possibilismo a una trattativa con i brigatisti. Anche la Democrazia Cristiana è divisa; c’è chi interpreta il sequestro del presidente come un tentativo di spostare il partito su posizioni di destra e c’è chi, invece, lo legge come un’azione violenta a sostegno dei comunisti e del compromesso storico.

18 marzo

Mentre si celebrano i funerali dei cinque uomini della scorta al cimitero del Verano, le Brigate Rosse inviano il primo dei nove comunicati. Nel documento spiegano le motivazioni del sequestro Moro all’interno del cosiddetto «carcere del popolo». Il maggiore esponente della Dc Aldo Moro è considerato «il gerarca più autorevole, il teorico, il padrino politico, nonché lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano attraverso politiche sanguinarie».

La stampa nazionale prova ad analizzare il significato politico del rapimento e le possibili risposte dello Stato. Si paventano l’intervento dell’esercito e l’applicazione di leggi speciali per debellare il terrorismo. Ugo La Malfa invoca la pena di morte. Francesco Cossiga viene designato responsabile unico del coordinamento tra le Forze dell’Ordine. Vieneapprovata l’introduzione di misure per le forze di polizia. I sindacati accettano le leggi antiterrorismo, ma a patto che ci sia una scadenza precisa.

È l’inizio di un bailamme che coinvolge, come ha scritto Miguel Gotor nel suo Lettere dalla prigionia, mitomani, colleghi invidiosi, uomini soli, fascisti nostalgici, grandi scrittori e piccoli investigatori di un’Italia brulicante e sommersa, annoiata e giocherellona, cinica e cavillosa, spensierata e crudele, che soprattutto la domenica, nel giorno di festa, risveglia i suoi istinti più profondi e ferini.

25 marzo

Una settimana dopo il rapimento, le Brigate Rosse emettono altri due comunicati in cui ribadiscono i concetti del messaggio precedente e annunciano l’inizio dell’interrogatorio al presidente della Dc, il quale – fanno sapere – «prosegue con la completa collaborazione del prigioniero». Già, come sta, cosa fa e cosa pensa nel frattempo Aldo Moro?

Si trova nascosto in un appartamento di via Montalcini. Non dispone né di radio né di televisione, e dei giornali riesce solo a leggere quanto i brigatisti gli offrono in visione: all’improvviso, un uomo abituato a essere al centro di un privilegiato sistema informativo si trova isolato dal mondo. La realtà esterna gli viene filtrata da un paio di uomini mascherati.

29 marzo

La stampa rende pubbliche le prime lettere dalla prigionia inviate da Aldo Moro, alla moglie, a Cossiga e a vari esponenti del partito. In totale saranno ottantasei. Alla consorte Eleonora scrive: «Io sono qui in discreta salute», mentre al ministro dell’Interno spiega di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato». Pertanto lo invita a riflettere attentamente sulla situazione, al fine di evitare «guai peggiori». Nella missiva, poi, cita anche la «ragion di Stato», paragona il suo rapimento a precedenti casi internazionali e suggerisce di far intercedere la Santa Sede.

4 aprile

Con la pubblicazione delle prime lettere, si rafforza la linea dell’intransigenza. Non si deve trattare con i terroristi. Piuttosto si rafforzano i controlli della polizia. Qualcuno è convinto sia ancora possibile trovarlo. Sì, ma dove? I poliziotti effettuano operazioni speciali in tutta Roma, arrestando parecchi innocenti. In quei giorni, per finire in prigione, «basta indossare un cappotto o una giacca sospetta». Sotto ogni sospetto può nascondersi un criminale, sotto ogni criminale può nascondersi un terrorista. Si instaura un clima di repressione in tutto il Paese.

8 aprile

Giungono nuove «lettere dall’inferno», nelle quali Aldo Moro si definisce senza mezzi termini un «prigioniero politico». Per ottenere la sua liberazione chiede la liberazione di «altre persone parimenti detenute». A quel punto, i vertici della Democrazia Cristiana dubitano dell’autenticità delle missive. Anche la Santa Sede appare perplessa di fronte alla proposta di scambio di prigionieri. Visto il contenuto, non sembrerebbero «moralmente ascrivibili a Moro». Dicono che il testo è di «un uomo che non è padrone della propria persona». I veri autori sarebbero dunque «suggeritori dal volto mascherato con il copione dello sfascio del Paese in mano». E se le carte sono truccate, anche la partita interpretativa ne esce inevitabilmente falsata.

10 aprile

La Dc ha annunciato pubblicamente che non darà più valore ai futuri messaggi di Moro dalla prigione. Quindi, nessuna dichiarazione ufficiale in merito a una nuova lettera in cui il prigioniero lancia un «esplicito anatema» nei confronti dei democristiani Zaccagnini e Cossiga, colpevoli di non aver negoziato il suo rilascio. Si percepisce imbarazzo in Vaticano dopo che la famiglia Moro ha rivendicato l’autenticità delle lettere. Anche la moglie ammonisce i vertici del partito e li esorta a fare «ciò che dovete fare».

12 aprile

A questo punto, la famiglia Moro, in forma privata e segreta, prova ad avviare trattative con le Brigate Rosse. Bettino Craxi parla con la moglie dell’onorevole. Il suo partito è alla guida del fronte aperto alle negoziazioni con i brigatisti, ma la Dc si professa irremovibile. Dieci giorni dopo, il 22 aprile, si pronuncia anche Papa Paolo VI. Il pontefice rivolge un appello pubblico ai terroristi, supplicando «in ginocchio» la liberazione di Moro «senza condizioni».

25 aprile

Le parole della Santa Sede non sortiscono alcun effetto. Anche lo stesso Moro è convinto dell’inconsistente ruolo del pontefice, come confessa in una lettera indirizzata alla moglie: «Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo». Nel giorno delle celebrazioni per l’anniversario della Liberazione, le affermazioni delle Br in un nuovo comunicato scuotono il Paese. I brigatisti, in cambio della vita di Moro, vogliono la scarcerazione di tredici detenuti politici. La lista include membri di diverse organizzazioni armate. Il comunicato minaccia di eseguire la sentenza se non ci sarà una risposta immediata e positiva.

Si polemizza sul fatto che lo Stato ha perso la faccia, perché non ha saputo o potuto impedire il rapimento di un’alta personalità come Aldo Moro. Il risentimento è riassunto nelle parole scritte dal prigioniero che critica i suoi ex compagni di partito. Con la più feroce delle unghiate, quella di un leone ferito, Moro scrive: «Il mio sangue ricadrà su di loro».

1 maggio

La dura condanna di Aldo Moro nei confronti degli statisti fa irrigidire gli animi di chi «progettava, mentre io non progettavo». Il coro di chi ha subito gli attacchi del presidente della Democrazia Cristiana si lega a Indro Montanelli, il quale critica severamente gli scritti del leader democristiano. Montanelli afferma che «tutti a questo mondo hanno diritto alla paura. Ma un uomo di Stato non può cercare d’indurre lo Stato ad una trattativa con dei terroristi che, oltre tutto, nel colpo di via Fani avevano lasciato sul selciato cinque cadaveri fra carabinieri e poliziotti». Questi personaggi, forse avrebbero avuto più coraggio e ben più dignità, trovandosi al posto di Moro. Gli è stata risparmiata la prova, ma l’avrebbero meritata.

4 maggio

Le speranze di trovare Moro o di rivederlo vivo sono ridotte al lumicino. Anche la famiglia è disperata, ormai preparata al peggio. Mentre «L’Unità» sottolinea la necessità di mantenere «nervi saldi, sangue freddo, coraggio», nelle case degli italiani non c’è più spazio per l’ottimismo. Parte del Paese attende soltanto la notizia della sua morte. Molti sembrano percorsi in quei giorni da una compulsiva tensione verso il sacrificio rituale, l’attesa di un gesto violento e radicale che ristorava, purificava e ricomponeva i rapporti malati tra le generazioni. I giovani agognavano il parricidio, i vecchi l’uccisione del fratello migliore. Una vittima da immolare sull’altare del loro smarrimento, con il sangue del quale lavare i peccati di un paese indocile e tormentato.

6 maggio

«Il Corriere della Sera» annuncia che Andreotti è deciso a non scarcerare nessun terrorista. Le Brigate Rosse rispondono a tono, con il nono comunicato L’ultimo. «Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della Dc. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Moro è stato condannato».

7 maggio

Le forze politiche sono in attesa. Le indagini sono ferme. Zaccagnini, segretario del partito, dichiara che la Democrazia Cristiana non cederà. Nella stanza dei bottoni della Dc qualcuno ipotizza ciò che potrebbe accadere se i brigatisti rossi dovessero liberare Moro. Quel Moro che ha coperto di accuse e recriminazioni i suoi amici di partito, che ha rinnegato la Dc, «che sarebbe riemerso dalla segregazione catacombale di via Montalcini gonfio di rancori, e ansioso di vendette da assaporare a freddo. Per la Dc la sua presenza sarebbe stata dirompente, se non devastatrice. Il martire sfuggito alla morte poteva diventare il peggior nemico della Nomenklatura democristiana». I familiari lo sanno, e lanciano un disperato appello per la grazia di almeno uno dei tredici detenuti. Ma ormai non c’è più niente da fare.

Cosa c’è di più terribile di una morte violenta sul colpo? Forse l’attesa di una fine che non dipende da te, l’angoscia quotidianamente rinviata, e sempre rinnovata, di una morte che bracca e non afferra.

9 maggio

Il telefono dell’avvocato Franco Tritto squilla. Dall’altra parte, il brigatista Valerio Morucci si presenta però con il falso nome di Dottor Nicolai. Annuncia la morte dell’onorevole Moro e che sta «adempiendo alle ultime volontà del presidente». La telefonata è struggente. Franco Tritto piange. Tra le lacrime appunta le fredde e precise indicazioni sull’indirizzo in cui avrebbero trovato il corpo: nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani.

Secondo qualcuno, il luogo era altamente simbolico perché si trovava esattamente tra via delle Botteghe Oscure (sede del Pci) e piazza del Gesù (sede della Dc). Tutti dovevano capire che era la fine dello storico compromesso tra cattolici e comunisti. Non è propriamente così, ma ai tempi in cui non si poteva accedere immediatamente alle mappe online si potevano affermare anche cose del genere.

Quando le forze armate giungono sul luogo, aprono il bagagliaio della Renault 4 e si ritrovano davanti al cadavere di Aldo Moro. Il corpo acciambellato in quella sconcia stiva è una delle immagini più tragiche della nostra storia repubblicana. La fine dello storico compromesso tra cattolici e comunisti. Dopo quel giorno, in Italia prese avvio una nuova fase del disincanto, del cinismo e dell’indifferenza in cui le ragioni dell’antipolitica trovarono nuovi motivi per riproporsi e solidificarsi in un diffuso sentimento collettivo che sarebbe esploso con Tangentopoli.

Le indagini, gli arresti, la memoria

Nel corso degli anni, il delitto di Aldo Moro si è trasformato in un luogo paradossale della memoria italiana. Non esiste altro argomento in grado di suscitare polemiche tanto laceranti. Questo evento costituisce un grande rimosso nazionale. Ci si confronta ad esso di sfuggita, come davanti ad uno specchio maligno che riflette la nostra cattiva coscienza. Ancora non si è capito per quale ragione l’Italia sia stato l’unico paese al mondo in cui il ’68 si sia progressivamente trasformato in un conflitto armato tra destra e sinistra, accompagnato, altra specificità nazionale, da una serie di stragi da Piazza Fontana ad Aldo Moro.

Tra l’ottobre del 1978 e il maggio del 1981, vengono catturati e arrestati in ordine i brigatisti Franco Bonisoli, Adriana Faranda, Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Raffaele Fiore, Bruno Seghetti, Maurizio Iannelli, Anna Laura Braghetti, Mario Moretti e Barbara Balzerani. Nel 1984, il giudice Ferdinando Imposimato svela la sede del covo brigatista dove Moro fu sequestrato e ucciso: via Montalcini numero 8, Roma. 

Sei anni più tardi, nel 1990, durante alcuni lavori di ristrutturazione nell’ex covo delle Br di Milano, in via Monte Nevoso, vengono trovati altri documenti di Moro. Tra cui diverse lettere mai recapitate. Dopo quattro processi, pubblicazioni, film e infinite discussioni condite da roventi polemiche, ecco una nuova indagine giornalistica che, se confermata, ribalterebbe il luogo di prigionia indicato nella sentenza di primo grado e renderebbe il Papa e tutta la Santa Sede complice del suo sequestro. Non ci resta altro che aspettare l’evolversi degli eventi, noi testimoni della memoria e della storia.