Il principale oppositore dello “zar”, morto nel 2024 in una colonia siberiana, sarebbe stato avvelenato. Testimonianze dei dipendenti del carcere parlano di convulsioni e dolori atroci. La vedova: «Putin colpevole, non starò in silenzio»
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Massimo Alberico / ipa-agency.net
Il fantasma di Alexei Navalny torna a tormentare Mosca. A oltre un anno dalla morte del principale oppositore di Vladimir Putin, la vedova Yulia Navalnaya ha rotto di nuovo il silenzio con un’accusa che scuote il Cremlino. «Ho le prove, mio marito è stato avvelenato», ha dichiarato sui social, aggiungendo che campioni biologici prelevati nel febbraio 2024 e inviati a due laboratori di due diversi Paesi occidentali «confermano la presenza di veleno».
Un’accusa diretta, che arriva in un momento delicatissimo per la Russia e per l’Europa, e che riporta sotto i riflettori una delle vicende più oscure degli ultimi anni. Navalny era morto il 16 febbraio 2024 nella colonia penale di Kharp, in Siberia, ufficialmente per una “sindrome della morte improvvisa”. Una diagnosi che, fin da subito, aveva lasciato sospetti e ombre.
Il team di Navalny, spiega la vedova, è riuscito a raccogliere anche cinque testimonianze di dipendenti della colonia penale. I racconti coincidono e descrivono le ultime ore del dissidente come un crescendo di dolore fisico, convulsioni e crampi violenti.
Il 14 febbraio 2024 Navalny era stato trasferito in isolamento, dopo giorni in cui lamentava dolori alla gamba destra. Due giorni più tardi, durante la breve passeggiata nel cortile, bussò alla porta dicendo che si sentiva male. Secondo un ispettore, si accasciò a terra tenendosi lo stomaco e il petto. Riportato in cella, cominciò a gemere, vomitare, respirare affannosamente. Poi le convulsioni: movimenti incontrollati del volto e delle mani, finché perse conoscenza.
Il personale medico della colonia arrivò solo dopo pranzo. Portato nell’ambulatorio, Navalny era ormai incosciente. Alle 13:25 venne chiamata un’ambulanza, che arrivò dieci minuti più tardi. Ogni tentativo di rianimarlo fu vano: alle 14:23 il dissidente fu dichiarato morto. La diagnosi ufficiale parlava di “sindrome convulsiva e sindrome della morte improvvisa”.
Yulia Navalnaya sottolinea che nella perizia medico-legale non c’è traccia delle convulsioni descritte dai testimoni. Inoltre, i lividi riscontrati a gomiti e ginocchia sarebbero compatibili con i colpi contro il pavimento durante le crisi epilettiche, e non con cadute accidentali. Altro nodo irrisolto: le telecamere. La colonia di Kharp era dotata di 63 dispositivi di sorveglianza solo nel blocco dove era rinchiuso Navalny. Eppure, per l’ultimo giorno di vita non esiste un solo filmato. «È impossibile credere che non ci siano registrazioni. Quelle immagini contraddicono la versione ufficiale», denuncia la vedova.
Le parole di Yulia sono durissime. «Dichiaro che Vladimir Putin è colpevole dell’omicidio di mio marito. Accuso i servizi segreti russi di sviluppare armi chimiche e biologiche proibite», ha detto. Poi l’appello: «Chiedo che i laboratori pubblichino i risultati delle analisi. Finché rimanete in silenzio, lui non si fermerà».
Una dichiarazione che chiude ogni spazio al compromesso. Non si limita a evocare un omicidio politico, ma chiama in causa direttamente lo zar e la macchina dei servizi segreti russi, accusati di continuare a utilizzare veleni e sostanze chimiche come arma di repressione.
A Mosca la risposta è stata gelida. «Non so nulla di queste dichiarazioni, non posso commentare», ha detto Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ripetendo il solito “no comment” che accompagna da anni ogni accusa sul caso Navalny. Ma questa volta la voce della vedova rischia di pesare di più. Non solo perché porta con sé i risultati di due laboratori indipendenti, ma perché aggiunge dettagli sulle testimonianze raccolte dal team del dissidente e sulle incongruenze della versione ufficiale.
La morte di Navalny aveva già sollevato proteste internazionali e accuse di omicidio politico. Ora, con queste nuove rivelazioni, la vicenda torna ad assumere i contorni di un giallo che chiama in causa la credibilità della Russia sul piano internazionale.
Il leader dell’opposizione, già sopravvissuto a un avvelenamento nel 2020, era considerato il simbolo più forte della resistenza interna al regime. La sua scomparsa, avvenuta tra le mura di una colonia penale siberiana, aveva il sapore di una resa dei conti definitiva. Oggi, con le parole della vedova, quella morte torna a gridare vendetta. E l’eco rischia di farsi sentire a lungo, nelle cancellerie occidentali come tra i cittadini russi che ancora cercano la verità.