Sono eleganti, soffici, avvolgenti. Costano quanto uno stipendio mensile, a volte due. Le giacche in cashmere Loro Piana sono il sogno ovattato del lusso italiano: cucite su misura per finanzieri, vip e politici, simbolo di uno stile impeccabile e discreto. Ma ora, quel sogno profuma di sudore, sa di turni infiniti e suona come un tubo di plastica che colpisce un corpo piegato sulla macchina da cucire. Perché dietro il marchio blasonato si cela, secondo l’inchiesta della procura di Milano, un sistema collaudato e cinico che ha fatto del caporalato il suo motore invisibile.

L’accusa è precisa: aver instaurato rapporti commerciali stabili con soggetti dediti allo sfruttamento della manodopera clandestina, chiudendo un occhio – e forse anche due – sui dormitori improvvisati, i salari in nero e le ore infinite che trasformano un tessuto pregiato in una macchina da soldi. La sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria di un anno per Loro Piana, oggi controllata dalla multinazionale francese Lvmh-Moet Hennessy Louis Vuitton di proprietà della famiglia Arnault, la quarta più ricca del mondo.

Il motivo? «Una prassi illecita così radicata e collaudata da potersi considerare parte integrante di una politica d’impresa orientata alla massimizzazione del profitto», scrive il giudice.

Tutto inizia da una denuncia, come in ogni thriller che si rispetti. Un operaio cinese racconta: «Mi avevano promesso quattro ore di lavoro al giorno, per 1.500 euro al mese. Ma lavoravo dalle nove del mattino alle dieci di sera. Solo mezz’ora per pranzo e mezz’ora per cena. Nessun riposo. Pagamenti in contanti o tramite terzi. Vivevo in una stanza attigua alla fabbrica». Alla fine, quando lo stipendio non arriva più, il sarto protesta. Il padrone lo colpisce con un pugno, poi con un tubo di plastica e alluminio. Più tardi lo accompagna al pronto soccorso, come se fosse tutto normale.

È il segnale che dà il via all’indagine. Nel capannone di Baranzate, i carabinieri trovano una scena da incubo. Operai che si nascondono nei montacarichi o sul tetto, dormitori abusivi, macchine da cucire senza protezioni di sicurezza, sarti invisibili. Tutti cinesi, alcuni senza documenti, tutti sotto la minaccia costante di “scappare” se si fosse presentato qualcuno che non fosse un cliente. È lì, nel cuore della periferia milanese, che nascono le giacche da mille a tremila euro vendute negli store Loro Piana.

Il meccanismo è sempre lo stesso: l’azienda madre appalta a una società intermediaria, che poi subappalta a laboratori cinesi completamente fuori controllo. È il caso della “Sor-Man” di Nova Milanese, formalmente produttrice per Loro Piana. L’amministratrice è chiara: «Ho iniziato con 200 giacche, poi gli ordini sono saliti a 3.000. A un certo punto ho iniziato a esternalizzare: non avevo più il personale né i macchinari. Ho dato tutto in mano ai cinesi».

E quanto costava una giacca prodotta in quel sottobosco industriale? Circa 80 euro a capo, riferisce la donna. Ma la fattura per Loro Piana saliva a 118 o 128 euro, a seconda del volume d’ordine. Una differenza sottile. Il vero salto, però, arriva nei negozi: lì quei capi, realizzati in condizioni disumane, venivano venduti fino a 3000 euro l’uno.

Altra ditta, stesso copione. La “Dai Meiying” di Senago. Nove lavoratori cinesi, alcuni in nero, altri irregolari. Dormitori tra le presse e le macchine da cucire, freezer con cibo accanto ai tessuti. I carabinieri trovano dispositivi di sicurezza rimossi per aumentare la produttività, e scontrini che certificano la presenza di capi Loro Piana e, tra gli altri, anche commesse di Tod’s, estranea all’inchiesta ma citata per la mole di produzione.

Il punto non è tanto se Loro Piana “sapeva” – è difficile dimostrarlo in tribunale – ma che non doveva non sapere, scrive la procura. L’azienda, prosegue il giudice, non ha strutture organizzative adeguate a garantire che le proprie commesse non finiscano nel sottobosco del lavoro nero. L’accusa è grave: «Una colpa organizzativa, una tolleranza colposa che si è trasformata in prassi».

La moda, insomma, è ancora prigioniera dei suoi demoni: il massimo profitto al minor costo umano, un sistema che ha già coinvolto nomi come Dior, Valentino, Alviero Martini, G.A. Operation. I brand si dichiarano “ignari”, ma poi affidano commesse milionarie a realtà che non potrebbero nemmeno tecnicamente sostenere la mole di lavoro. Così, l’eccellenza italiana viene confezionata da braccia sfruttate, e lo scintillio delle boutique nasconde l’odore acre della colla e del sudore.

Per i giudici, non si tratta di casi isolati, ma di un modello produttivo consolidato e colposamente alimentato. Uno schema replicato su scala industriale, con la complicità silenziosa di chi fa finta di non vedere. E così, a ogni stagione, sforniamo “lusso” a prezzi da caporalato.

Un giorno qualcuno, guardando la propria giacca Loro Piana nell’armadio, potrebbe chiedersi: “Ma quanto costa davvero il cashmere?” La risposta, purtroppo, non è scritta sull’etichetta.