Sedicimila persone hanno reso omaggio alla camera ardente in via Bergognone, tra applausi, lacrime e registri colmi di messaggi. Oggi la sepoltura nella sua Rivalta, nella cappella di famiglia: cerimonia ristretta, come lui aveva deciso, per chiudere la parabola di una vita segnata dall’eleganza assoluta
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A Milano si è formata una coda che sembrava infinita, una processione ordinata e composta che ha attraversato via Bergognone per due giorni di fila. Non era la sfilata di una nuova collezione, ma l’ultimo tributo a Giorgio Armani, il signore che ha ridisegnato i canoni dell’eleganza italiana e mondiale. In sedicimila hanno atteso il proprio turno davanti al quartier generale della maison, trasformato per l’occasione in un luogo di raccoglimento. C’era chi portava un fiore, chi lasciava poche parole sui registri, chi si fermava solo un attimo per chinare la testa. I messaggi erano semplici: «Ciao Giorgio», «Grazie di tutto», «Buon viaggio». Eppure, proprio nella loro semplicità, diventavano un coro unanime che raccontava meglio di qualsiasi discorso l’affetto di una città intera.
A sorprendere non è stata la presenza dei vip, pure numerosi: attori, ex modelle, politici, sportivi, tutti accompagnati davanti alla bara da giovani collaboratori della casa di moda. A colpire è stata la folla anonima, famiglie con bambini, anziani con il bastone, studenti incuriositi, turisti americani e giapponesi che volevano essere parte di un momento di storia. Per Milano, Armani non era solo il simbolo di un impero del lusso, ma un vicino di casa speciale, un monumento vivente che apparteneva al tessuto della città tanto quanto il Duomo o la Scala.
Le assenze eccellenti del mondo della moda non sono passate inosservate. Donatella Versace si era presentata sabato, ieri il fratello Santo, visibilmente provato, incapace di rilasciare dichiarazioni. Ma poco importava: la scena era già stata occupata da quella marea di gente comune che, forse per la prima volta, si è sentita parte di un rito collettivo in nome dell’eleganza.
Ora lo scenario cambia. Dopo il rito milanese, l’ultimo viaggio porta Armani lontano dai riflettori, in un piccolo borgo della provincia di Piacenza. Rivalta, affacciata sulla Val Trebbia, accoglierà la sepoltura nella cappella di famiglia. Non un cimitero monumentale, non una tomba in città: Armani aveva deciso tutto con largo anticipo, ordinando il restauro della cappella e scegliendo una grande croce stilizzata a decorarne l’ingresso. Qui riposano già la madre Maria, il padre Ugo e il fratello Sergio. Qui, tra le colline che lo videro bambino sfollato durante la guerra, lo stilista ha voluto tornare.
La cerimonia sarà per pochissimi, forse una ventina di persone. I parenti più stretti, la sorella Rosanna, le nipoti, il compagno e braccio destro Leo Dell’Orco. Un cerchio ristretto che riflette il carattere di Armani, schivo e perfezionista, deciso a controllare anche il copione della sua ultima uscita di scena. Niente folla, niente clamore: solo l’intimità della famiglia, il raccoglimento e quelle rose bianche che da sempre accompagnano il suo percorso.
Il passaggio da Milano a Rivalta ha il valore di un simbolo. Da un lato la dimensione globale di un uomo che ha vestito Hollywood, disegnato divise, arredato hotel, persino firmato stadi. Dall’altro la radice provinciale, mai recisa, che lo riportava sempre alla memoria dei giorni semplici lungo il Trebbia. Nelle foto d’epoca la madre sorride con i figli in costumi castigati, il fiume come sfondo, la guerra che costringeva a rifugiarsi lontano dai bombardamenti. Da lì partì il bambino che sarebbe diventato Re Giorgio, e lì ha voluto concludere il cerchio.
Nella sua Milano, l’addio si è chiuso con un applauso lungo e commosso, quando la bara è stata caricata sul furgone funebre. Gli addetti della maison, schierati davanti alla sede, non hanno trattenuto le lacrime. Per loro Armani non era solo un datore di lavoro, ma un maestro severo, un capo esigente che pretendeva perfezione e disciplina. «Voleva tutto perfetto, sempre», raccontava un collaboratore. Perfino la camera ardente rifletteva quella filosofia: sobria, elegante, essenziale, senza nulla di superfluo.
Un funerale in due tempi, dunque: pubblico e privato, popolare e intimo, urbano e provinciale. Due modi diversi di dire addio, entrambi coerenti con la figura di Armani, che sapeva parlare al mondo senza dimenticare mai la propria radice.
Il corteo che da Milano ha accompagnato il feretro fino a Piacenza sembra quasi una sfilata all’inverso: non modelle e passerelle, ma gente comune, auto discrete, l’applauso dei dipendenti. Una scena che resterà impressa nella memoria di chi c’era, perché dimostra come un uomo nato in una famiglia semplice possa diventare un’icona planetaria senza perdere il senso dell’appartenenza.
A Rivalta, il silenzio delle colline farà da contrappunto al clamore della camera ardente. Non ci saranno flash, né passerelle, solo la voce del parroco e il pianto sommesso dei parenti. Forse è proprio così che Armani aveva immaginato la sua uscita: senza spettacolo, senza concessioni al gossip, con la sobrietà di chi crede che lo stile vero non abbia bisogno di orpelli.
Eppure l’assenza rumorosa di Giorgio Armani non sarà mai completa. Milano continuerà a vivere della sua eredità, dalle vetrine di via Manzoni agli spazi di via Bergognone, e il mondo della moda non potrà fare a meno di confrontarsi con i suoi insegnamenti. L’eleganza senza tempo, il rigore estetico, l’idea che un abito debba valorizzare chi lo indossa e non trasformarlo in maschera.
Il sipario si chiude, ma l’opera resta. Armani lascia un vuoto grande come le piazze gremite che lo hanno salutato, ma anche una certezza: il suo nome non è solo un marchio, è un capitolo della storia italiana. Da Milano a Rivalta, da Hollywood alle strade del mondo, il suo ultimo viaggio conferma ciò che era già evidente: Giorgio Armani non ha mai smesso di insegnare. Neppure adesso.