Il presidente ha concesso la grazia «piena e incondizionata» a una dozzina di alleati coinvolti nel tentativo di sovvertire il voto del 2020. Intanto in Florida i procuratori citano in giudizio l’ex capo della Cia e altri ex funzionari federali
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Negli Stati Uniti la parola “interferenza” sembra avere due pesi e due misure. Se la fanno i nemici, è tradimento; se la fanno gli amici, è patriottismo. Donald Trump, fedele alla sua logica binaria, ha graziato Rudy Giuliani e un gruppo ristretto di collaboratori, gli stessi accusati di aver tentato di ribaltare i risultati delle presidenziali del 2020. Una decisione che ha fatto esplodere una nuova tempesta politica a Washington, proprio mentre l’amministrazione rilancia la controffensiva giudiziaria contro i vecchi avversari del Russiagate.
La notizia è stata resa pubblica dall’avvocato del Dipartimento di Giustizia incaricato delle grazie, Ed Martin, che domenica sera ha diffuso il documento ufficiale. Nel testo si legge che il presidente «concede il perdono pieno, completo e incondizionato a tutti coloro che hanno agito in difesa della legittimità del processo elettorale americano». Un paradosso, considerando che tra i beneficiari figurano gli artefici del tentativo di sovvertirlo.
Nella lista dei graziati, oltre a Giuliani, compaiono Mark Meadows, ex capo di gabinetto della Casa Bianca; John Eastman e Kenneth Chesebro, i due avvocati che avrebbero elaborato la strategia per convincere Mike Pence a bloccare la certificazione del voto il 6 gennaio 2021; Boris Epshteyn, consigliere politico di lunga data, e Sidney Powell, l’avvocata che aveva lanciato una crociata giudiziaria contro i presunti brogli elettorali negli Stati in bilico.
Le grazie non cancellano alcuna condanna, perché nessuno di loro era stato incriminato per reati federali. Ma il gesto ha un significato politico e simbolico potentissimo: blinda il passato e lancia un messaggio al futuro. Chi ha combattuto per Trump, oggi viene premiato. Chi ha indagato su di lui, invece, finisce nel mirino.
Proprio nelle stesse ore, i procuratori della Florida hanno emesso citazioni in giudizio per John Brennan, ex direttore della Cia, e per altri ex funzionari federali coinvolti nelle inchieste sul Russiagate, tra cui Peter Strzok e Lisa Page, due agenti dell’Fbi che avevano indagato sui presunti legami fra la campagna di Trump e Mosca. Lo ha rivelato la Cnn, sottolineando che si tratta di un nuovo capitolo della resa dei conti del tycoon contro chi, negli anni, lo ha definito una minaccia per la democrazia americana. Le autorità vogliono esaminare i documenti relativi all’indagine condotta tra il 2016 e il 2017, nel periodo che precedette la vittoria di Trump. Un segnale chiaro: l’attuale presidente non ha dimenticato. E non ha perdonato.
Intanto il documento di grazia non è datato, e la Casa Bianca non ha risposto alle domande su quando sia stato firmato. Trump, tuttavia, non si è incluso nell’elenco dei beneficiari, nonostante da anni sostenga di avere il diritto di autoconcedersi la grazia per eventuali reati federali. Un’ipotesi che resta giuridicamente controversa, ma che il tycoon sembra voler tenere in serbo come ultima carta.
Oltre ai suoi più stretti alleati, la grazia presidenziale ha coperto decine di attivisti repubblicani che avevano firmato certificati falsi dichiarandosi “grandi elettori” di Trump in alcuni Stati persi da lui, come Georgia, Arizona e Wisconsin. Quei documenti furono un tassello chiave della strategia per ribaltare il risultato elettorale e spingere Pence a non ratificare la vittoria di Joe Biden.
Il presidente ha presentato l’iniziativa come un «atto di giustizia verso cittadini perseguitati per motivi politici», ma per le opposizioni è solo un tentativo di riscrivere la storia. «Questa non è giustizia, è un colpo di spugna», ha dichiarato il senatore democratico Chris Murphy. «Trump sta trasformando il potere di grazia in uno scudo per i suoi complici».
La vicenda riapre così una ferita ancora viva nella democrazia americana: quella del 6 gennaio 2021, quando una folla di sostenitori di Trump prese d’assalto il Campidoglio di Washington nel tentativo di impedire la certificazione dei risultati. Molti di loro, condannati nei mesi successivi, erano già stati graziati in massa da Trump nei primi giorni del suo nuovo mandato, un gesto che aveva suscitato la rabbia delle forze dell’ordine e delle famiglie degli agenti aggrediti.
Il copione si ripete: chi è fedele al capo viene salvato, chi lo ostacola finisce sotto inchiesta. Il confine tra giustizia e vendetta si fa sempre più sottile, e l’America si scopre nuovamente divisa tra chi applaude il presidente per aver “difeso i suoi”, e chi teme una pericolosa deriva autoritaria. Trump, come sempre, tira dritto. «Stiamo ripulendo il sistema da decenni di corruzione», ha dichiarato in un comizio a Dallas. «I veri criminali sono quelli che hanno cercato di sabotare il voto del popolo americano».
Ma dietro la retorica della redenzione si intravede una strategia politica lucidissima: blindare il proprio cerchio magico, neutralizzare i nemici storici e riaccendere lo scontro con l’establishment di Washington in vista delle prossime elezioni. In fondo, per Donald Trump, la campagna non è mai davvero finita. Solo cambiato il campo di battaglia. E con un colpo di penna, ancora una volta, ha dimostrato di saperlo trasformare a suo vantaggio.

