Anche stamattina, dal comignolo della Cappella Sistina, è uscita una fumata nera. Ma stavolta non è stata un segnale di stallo, bensì un momento chiave per rimescolare le carte. Oltretevere, i sussurri parlano chiaro: oggi potrebbe essere il giorno giusto. La prima votazione è servita a tastare il polso del Collegio cardinalizio, con i suoi 133 elettori divisi più per culture e visioni che per correnti. La parola d’ordine è fluidità: le alleanze si creano, si disfano e si ricompongono in tempo reale.

Il nome da battere, fin dall’inizio, è quello di Pietro Parolin, il Segretario di Stato. Stimato per la sua esperienza diplomatica, avrebbe raccolto tra i 40 e i 50 voti nella prima tornata, una base solida per costruire il quorum. Ma nelle ultime ore sarebbe arrivato un appoggio determinante: Antonio Luis Tagle, filippino, ex prefetto di Propaganda Fide, avrebbe deciso di convergere su Parolin, portandogli in dote una parte dell’Asia e qualche sponda africana. Tagle stesso era tra i favoriti, ma ha perso smalto davanti all’ascesa del connazionale Pablo Virgilio David, vescovo coraggioso nella lotta contro gli abusi del regime Duterte. Sarebbe lui ora il nome caldo tra i 21 cardinali asiatici.

Non mancano però i “voti di omaggio”, tributi simbolici a figure di spicco. È il caso di Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, salito agli onori delle cronache per essersi offerto come ostaggio a Gaza. Stimato dalla frangia più radicale del bergoglismo, rappresenta un’idea forte di testimonianza evangelica. Come lui, anche Matteo Zuppi, romano, vicino a Sant’Egidio, catalizza simpatie tra i cardinali “di frontiera”, soprattutto in America Latina e Africa. Ma a contendersi quella fascia progressista c’è pure Jean-Marc Aveline, francese, arcivescovo di Marsiglia, amato per il suo impegno sociale e le critiche a Macron sulla politica estera.

Chi invece si pone all’opposto dello spettro è Gerhard Ludwig Müller, teologo tedesco e riferimento dei conservatori più intransigenti. Con lui, anche il cardinale Fernando Filoni, sopravvissuto alle bombe a Baghdad, figura solida della diplomazia curiale. In attesa che il gruppo conservatore trovi un nome spendibile e, soprattutto, eleggibile.

Ed è qui che entra in scena il nome nuovo: Robert Francis Prevost, agostiniano statunitense con sangue italiano, francese e spagnolo. Per vent’anni in missione in Perù, oggi è prefetto del Dicastero dei vescovi. Francesco lo ha voluto a Roma proprio per la sua capacità di ascolto e mediazione. Discreto ma autorevole, riservato ma non timido, Prevost potrebbe mettere d’accordo anime diverse. È apprezzato da progressisti moderati e da conservatori pragmatici. E in un Conclave dove conta soprattutto il profilo pastorale, la sua esperienza missionaria è un vantaggio decisivo.

Anche perché, a dispetto delle etichette, non esiste un blocco bergogliano monolitico. I cardinali nominati da Francesco provengono da ogni angolo del mondo e parlano lingue ecclesiali differenti. C’è chi guarda con favore a Cristobal Lopez Romero, salesiano spagnolo e vescovo in Marocco, o chi continua a sperare in sorprese dall’Africa, magari in un recupero di Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, nonostante le sue recenti polemiche con il Vaticano.

Ma intanto le manovre proseguono. Si contano i voti, si cercano convergenze. E si aspetta la fumata bianca. Forse oggi. Forse domani. Forse al prossimo giro di valzer.