C’è un silenzio che precede le bombe. E c’è un silenzio che le segue. In mezzo, c’è la voce di un uomo che scrive la pace su un social network, mentre il mondo trattiene il fiato in una tregua che si lacera da sola, come una bandiera sventolata troppo a lungo tra le macerie. È Donald Trump il regista improvvisato di questo fragile armistizio tra Israele e Iran. Ma è un copione che si straccia da solo, prima ancora che si chiuda il primo atto.

Il cessate il fuoco è in vigore!”, annuncia il presidente americano sui Social, mescolando proclami di vittoria e profezie d’amicizia. Aggiunge perfino che “gli aerei torneranno a casa” e che “nessuno sarà ferito”. Ma il cielo non si fida delle parole. In pochi minuti, due missili attraversano il confine settentrionale di Israele. Le sirene risuonano, e le ombre tornano a distendersi sulle promesse appena pronunciate.

La risposta di Israele è immediata e furiosa. Il ministro della Difesa, Israel Katz, accusa l’Iran: “Risponderemo con forza”. Teheran nega. Dice che non ha lanciato nulla, che non sono stati loro. Che quella pace scritta sui social era già carta straccia prima ancora di essere firmata. E in effetti, il Consiglio di Sicurezza iraniano non ha mai ufficializzato alcuna adesione alla tregua. L’allerta resta alta. I muscoli delle forze armate sono tesi. E le parole si trasformano in minacce.

Il vero dramma, però, non si consuma a Teheran o a Tel Aviv. Si consuma nel ventre molle dell’Europa, nei suoi salotti diplomatici che applaudono ogni annuncio con l’entusiasmo tiepido di chi osserva un incendio da dietro il vetro. Ursula von der Leyen parla di “passo importante verso la stabilità”. La Cina auspica “una soluzione politica”. Tajani offre Roma come tavolo neutro, mentre gli italiani fuggono da un confine all’altro, cercando di tornare a casa. Ma non c’è casa, in un mondo dove le basi militari si trasformano in bersagli.

In Italia, il tempo si è ristretto. Le basi americane – Aviano, Sigonella, Camp Darby – diventano improvvisamente fragili nervi esposti. Non sono state utilizzate, dicono. Ma l’Iran promette vendetta contro chiunque ospiti l’invasore. La paura diventa architettura del quotidiano: 29mila obiettivi sensibili sotto sorveglianza, dal Friuli alla Sicilia, mentre la politica italiana si avvita nel solito nodo tra obbedienza atlantica e retorica sovranista.

E intanto Trump gioca al pompiere e al piromane. Prima annuncia la tregua, poi accusa entrambi di averla violata. Poi ammonisce Israele: “Non sganciate quelle bombe”. Poi ancora rassicura: “Il futuro di Israele e dell’Iran è pieno di promesse”. È un teatro senza attori, dove i ruoli si scambiano e le parole evaporano. Il suo è un pacifismo performativo, spettacolare, teatrale: la pace come post, la diplomazia come reel, il disarmo come trending topic.

Ma la realtà non si piega alla sceneggiatura. Mentre Trump twitta, l’Iran annuncia di voler ricostruire il proprio programma nucleare. Dice che era tutto già previsto, che non c’entrano né i raid israeliani né gli attacchi americani. Ma la verità, in questa guerra fatta di verità alternative, è solo un’altra ombra. Chi ha ragione? Chi ha sparato per primo? Chi viola la tregua? Nessuno lo sa. O forse lo sanno tutti, ma non conviene dirlo. E poi ci sono le guerre che non hanno mai avuto una tregua. È il nuovo paradigma della geopolitica: trattative sbandierate e violate, diplomazie svuotate e popoli abbandonati.

In Palestina, le bombe non aspettano più un pretesto. Piovono su Rafah, su Gaza, su campi profughi che non esistono più. Qui non c’è nemmeno il teatro delle diplomazie: solo macerie, bambini sotto le tende, ospedali distrutti e un’intera popolazione che viene cancellata sotto gli occhi di un’Europa muta e complice. La parola “pace” è diventata oscena, la parola “genocidio” è ancora vietata. E chi osa pronunciarla viene accusato di antisemitismo, mentre il vero antisemitismo cresce proprio dove si applaude l’orrore.

E intanto in Ucraina si continua a morire tra i solchi di una guerra diventata routine: trincee, blackout, droni, missili. Tutto si ripete, e nessuno si ferma. Perché la guerra, oggi, è il sottofondo accettabile del presente.I civili sotto le bombe, i governi sotto pressione, le verità riscritte in tempo reale.

Cambiano i luoghi, non la grammatica della guerra. L’eccezione è la pace. Il mondo guarda. Ma non vede. E intanto la storia si ripete, ma senza mai insegnare. È la storia di una tregua annunciata e subito disattesa. Di un Medio Oriente che torna a bruciare. Di un’Europa che resta muta e di un’Italia che ha paura anche solo di sapere se le sue basi saranno usate o no. È la storia di una guerra che non vuole più nemmeno il nome di guerra, ma che continua a uccidere, intimidire, costringere alla fuga.

Non è una tregua, questa. È un’intesa di facciata tra chi non si fida, firmata da chi non ha il potere di garantire. È un’illusione orchestrata da un uomo che scrive la pace come fosse un titolo di borsa. E mentre la borsa sale, gli aerei decollano. Il silenzio che resta, non è quello della pace. È il silenzio dell’attesa. Dell’inganno. Della prossima sirena. Per chi non smette di sentire il rumore delle bombe, anche quando il mondo finge di ascoltare la pace.