Il Patriarca latino di Gerusalemme rompe il silenzio sulla tragedia del popolo palestinese: «La mia gente ha perso tutto». Mentre il mondo guarda altrove, un’intera popolazione viene annientata
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Palestinians inspect the damage, following overnight Israeli strikes on homes, in the after the Israeli army bombed the Hawuz refugee camp in Khan Yunis, south of Gaza Strip, on May 03, 2025. Photo by Abdullah Abu Al-Khair apaimages//APAIMAGES_030525_Khan_Yunis_AKH_01(3)/Credit:Abdullah Abu Al-Khair ap/SIPA/2505031349
«Continuano a ripetermi che devo essere neutrale su Gaza. Venite con me a Gaza, parlate con la mia gente che ha perso tutto e poi ditemi che devo essere neutrale…». Con queste parole, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, ha squarciato il velo dell’ipocrisia internazionale sulla tragedia in corso nella Striscia di Gaza. È una dichiarazione che pesa come un macigno. Non solo perché arriva da una figura religiosa che rappresenta l’equilibrio e la mediazione in una terra martoriata, ma perché rivela il punto di rottura: quando il dolore supera la diplomazia e l’umanità chiede di non essere ignorata.
A Gaza oggi si consuma una catastrofe umanitaria che ha pochi precedenti nella storia recente. Le immagini che arrivano sono quelle di bambini scheletrici, di ospedali ridotti a cumuli di detriti, di madri che scavano con le mani sotto le macerie nella speranza di ritrovare un figlio ancora vivo. Secondo fonti indipendenti, si parla di oltre 35.000 morti da ottobre 2023, tra cui più di 13.000 bambini. Ma i numeri non bastano a raccontare la vastità dell’orrore: ci sono i sopravvissuti, traumatizzati, mutilati, resi orfani o privati di ogni prospettiva di futuro.
La fame, come denuncia Pizzaballa, è diventata un’arma di guerra. Centinaia di migliaia di civili sono costretti a vivere senza accesso regolare a cibo, acqua potabile, elettricità. I convogli umanitari vengono ostacolati, rallentati o colpiti. In questo quadro di devastazione, la Striscia è ormai un campo di battaglia permanente, dove il diritto internazionale è sospeso e la vita umana ha perso valore.
Eppure, tutto questo accade sotto gli occhi del mondo. L’indifferenza ha preso il posto della coscienza. La comunità internazionale si è divisa in condanne rituali, dichiarazioni vuote, interessi strategici. Le grandi potenze, che pure avrebbero la forza di fermare questa spirale, continuano a giocare con equilibri geopolitici che nulla hanno a che fare con la giustizia o la pace.
La guerra tra Israele e Hamas, che periodicamente esplode e si riversa sui civili come un’ondata di morte, non ha mai davvero smesso di esistere. Ma oggi è diventata una guerra permanente contro un popolo in trappola. La popolazione civile palestinese paga il prezzo più alto, mentre la politica si mostra incapace di tracciare una via d’uscita.
Non si tratta di prendere parte per una fazione. Si tratta di dire, senza ambiguità, che la morte di migliaia di bambini non è un “effetto collaterale”. Che la fame non può essere usata come strumento di pressione militare. Che bombardare scuole e ospedali, negare cure ai feriti, lasciare che un’intera società venga spogliata della sua umanità, è un crimine davanti al quale non possiamo restare neutrali.
La voce del cardinale Pizzaballa è quella di chi conosce il dolore sul campo, non da uno schermo. È una voce che interpella i governi, le istituzioni, le coscienze. «Ci rivolgiamo a tutti coloro che hanno il potere di prendere decisioni per porre fine a tutto questo», ha detto. È un appello che chiede una svolta politica, un’azione diplomatica concreta, ma anche un risveglio morale.
È tempo che la comunità internazionale smetta di guardare altrove. È tempo che l’Europa, gli Stati Uniti, il mondo arabo, la Santa Sede e tutte le forze responsabili si uniscano per una soluzione che riporti la pace e garantisca diritti, dignità e sicurezza a israeliani e palestinesi.
Perché se oggi Gaza muore sotto le bombe e la fame, domani morirà la credibilità dell’umanità tutta.