Nel cuore della Cattedrale cosentina, tra fede e arte, si custodisce l’altare marmoreo firmato dall’autore del Cristo velato: un’opera che unisce spiritualità barocca, bellezza senza tempo e profonda devozione popolare
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All’interno della Cattedrale di Cosenza, scrigno millenario di fede e arte, si apre la cappella della Madonna del Pilerio, luogo sacro e amatissimo dal popolo cosentino, che alla Vergine, regina della Cattedrale e della città, ha da secoli affidato le proprie suppliche e speranze.
In questo spazio silenzioso e sacro, dove la pietra respira ancora le memorie di pestilenze, terremoti e preghiere, si erge l’altare marmoreo realizzato dal celebre scultore napoletano Giuseppe Sammartino, noto universalmente come l’autore del mirabile "Cristo velato" conservato nella cappella Sansevero di Napoli.
Questo altare, di bellezza solenne e luminosa, fu commissionato a Sammartino nella seconda metà del Settecento, quando l’artista era già affermato e richiesto dalle più importanti committenze religiose e nobiliari del Regno di Napoli.
L’altare della Madonna del Pilerio, compiuta nel 1771, si distingue per l’eleganza delle sue linee e la raffinatezza del marmo, lavorato con sapienza da Sammartino e dalla sua bottega. Al centro dell’altare, protetta da un fastoso apparato architettonico in stile tardo barocco, è collocata l’icona della Madonna del Pilerio, immagine bizantina su tavola, antica e veneratissima, risalente probabilmente al dodicesimo secolo dopo Cristo.
Sammartino valorizza la sacra immagine con un’edicola marmorea che sembra aprirsi come un abbraccio intorno alla Vergine, sostenuta da colonne tortili e sormontata da un frontone spezzato, in un dinamismo che fa vibrare la scena in modo quasi teatrale. Ai lati si collocano angeli in adorazione, putti eleganti, dai gesti misurati e dai panneggi morbidi, che rivelano la maestria dello scultore nell’infondere grazia e spiritualità alla pietra. Guardando le figure dei putti scolpite da Sammartino, possiamo notare la maestria e l'eleganza dello scultore. In essi è sintetizzata tutta la tecnica e tutta la materia artistica dell'autore.
L’altare appare come una macchina scenica della fede, pensata per celebrare la centralità della Madonna nella devozione cittadina e nella vita religiosa della Calabria.
Ma come si spiega la presenza di un artista tanto illustre a Cosenza? Giuseppe Sammartino (1720–1793), scultore napoletano nato in una famiglia di artisti, fu al servizio di importanti famiglie nobili e istituzioni religiose del Regno borbonico. La sua fama, accresciuta grazie al Cristo velato (1753), lo pose al centro di una rete di committenze che lo portarono anche lontano da Napoli.
A Cosenza, Sammartino giunse probabilmente su invito dell’arcivescovo Gennaro Clemente Francone, raffinato ecclesiastico e mecenate, che desiderava arricchire la cattedrale con un’opera degna della devozione mariana e delle migliori tradizioni artistiche del Sud. Gennaro Clemente Francone era arcivescovo della città di Cosenza, ma originario di Portici, una città campana, pertanto aveva avuto occasione di osservare da vicino, ed apprezzare, le opere di Sammartino, al punto da chiamarlo in Calabria per lavorare all'altare della Vergine patrona della maestosa cattedrale cosentina. Aveva già compiuto il Cristo velato, il San Giacomo, vari putti decorativi per altari napoletani.
Sammartino, in quegli anni, accettò diverse commissioni fuori Napoli, e la realizzazione dell’altare cosentino fu affidata a lui proprio per la sua straordinaria abilità nel trattare la materia marmorea, nel dare vita a un’iconografia sacra capace di emozionare e ispirare.
Durante il suo soggiorno in Calabria – breve ma significativo – Sammartino fu ospite dell’episcopio cosentino e lavorò con maestranze locali, supervisionando personalmente la realizzazione dell’altare, che fu portato a termine in pochi anni, grazie all'aiuto di alcuni suoi allievi-collaboratori. Alcuni documenti settecenteschi testimoniano la presenza dell’artista a Cosenza, e le cronache dell’epoca raccontano della meraviglia che l’altare suscitò tra i fedeli alla sua inaugurazione, nel 1771.
Il confronto tra l’altare della Madonna del Pilerio e il Cristo velato offre spunti affascinanti. Sebbene le due opere appartengano a contesti e funzioni differenti – l’una altare liturgico, l’altra scultura sepolcrale – entrambe rivelano la medesima visione estetica e spirituale di Sammartino: quella di un artista che sa rendere la pietra viva, capace di esprimere il divino attraverso la perfezione formale.
Nel Cristo velato, il corpo martoriato di Cristo è coperto da un velo trasparente scolpito nel marmo, un prodigio tecnico e simbolico che commuove per la sua umanissima pietà. Anche nell’altare cosentino, Sammartino gioca con la luminosità del marmo, i movimenti armoniosi degli angeli, la teatralità barocca della composizione, per indirizzare lo sguardo del fedele verso l’icona della Madonna, che diventa centro visivo e spirituale.
In entrambe le opere, inoltre, si percepisce un rapporto profondo con la religiosità popolare, un’arte che non è solo appannaggio delle élite colte, ma che parla al cuore del popolo, commuove, consola, eleva. Sammartino riesce a fondere tecnica e fede, rendendo l’altare e la scultura non meri oggetti d’arte, ma luoghi dell’incontro tra uomo e sacro.
E così, tra le navate silenziose della Cattedrale di Cosenza, l’altare della Madonna del Pilerio continua a parlare il linguaggio mite e meraviglioso della pietra che prega, del marmo che si fa tenerezza, abbraccio, speranza. Giuseppe Sammartino, artista capace di vestire di velo trasparente un corpo di Cristo e di adornare di angeli sospesi il volto antico di Maria, ha lasciato qui non solo la sua arte, ma forse anche un frammento del suo cuore, un sussurro d’amore per la bellezza che consola, che salva.
Chi entra nella cappella si trova di fronte a un piccolo miracolo scolpito, un altare che è soglia tra terra e cielo, dove l’icona bizantina della Madonna, così semplice, così umile, si incastona come una gemma nel respiro fastoso del marmo, e gli angeli sembrano sospirare per noi le parole che non sappiamo dire. C’è in quest’opera un intimo pudore, la stessa dolcezza struggente che vibra nel Cristo velato, come se Sammartino avesse intuito, in fondo all’arte, la malinconia dolcissima di ciò che passa, di ciò che l’uomo scolpisce contro il tempo per non dimenticare.
L’altare resta, immobile e vivo, testimone di un incontro felice tra un grande artista e un popolo devoto, tra il sogno di Napoli e il cuore di Cosenza, tra l’eternità della bellezza e la fragilità dell’uomo.
Nel silenzio della cappella, la luce accarezza il marmo e sembra dirci che ogni opera d’arte è, in fondo, una carezza lasciata ai secoli, un atto d’amore. E Sammartino, con le sue mani di scultore poetico, quell’amore lo ha saputo rendere eterno.