In Calabria vivono comunità che parlano ancora una lingua antica, celebrano riti bizantini e indossano abiti tradizionali ornati d’oro durante le feste religiose. Sono gli arbëreshë, discendenti degli albanesi che, nel XV secolo, attraversarono l’Adriatico per fuggire all’invasione ottomana. La Calabria, in particolare, divenne rifugio e nuova patria per decine di migliaia di profughi provenienti dalle terre dell’attuale Albania, della Grecia continentale e del sud dell’Epiro.

Quella degli arbëreshë fu una migrazione di salvezza, ma anche di preservazione culturale. Le ondate più consistenti si verificarono dopo la morte dell’eroe albanese Giorgio Castriota Scanderbeg (1468), simbolo della resistenza cristiana contro l’impero turco. Le famiglie albanesi, accolte dal Regno di Napoli, si stanziarono in zone spopolate o abbandonate, contribuendo alla rinascita di numerosi centri collinari. In cambio, mantennero autonomia religiosa, lingua e consuetudini. Nacque così una delle prime e più riuscite integrazioni culturali del Mediterraneo moderno.

Oggi, a distanza di oltre cinque secoli, in Calabria sopravvive ancora una delle più importanti aree arbëreshë d’Italia. Le comunità calabresi non solo parlano l’arbëreshë, una variante arcaica della lingua albanese, ma celebrano messe in rito bizantino, custodiscono canti polifonici e tramandano una memoria storica fatta di esilio, radicamento e orgoglio identitario.

I comuni arbëreshë calabresi

La maggior parte dei centri arbëreshë si trova in provincia di Cosenza, dove si concentra il nucleo più vasto e storicamente coeso dell’Arbëria calabrese. Tra questi: Lungro (Ungra), sede dell’Eparchia di rito bizantino, centro religioso e simbolico dell’intera comunità; Civita (Çifti), uno dei borghi più suggestivi d’Italia, con architetture arbereshe e affacci mozzafiato sul canyon del Raganello; San Demetrio Corone (Shën Mitri), sede storica del Collegio Italo-Albanese; Firmo (Ferma), Frascineto (Frasnita), Plataci (Pllatëni), San Basile (Shën Vasili), San Giorgio Albanese (Mbuzati), San Cosmo Albanese (Strihàri), Santa Sofia d’Epiro (Shën Sofia), Vaccarizzo Albanese (Vakarici), Spezzano Albanese (Spixana), Cerzeto (Qana), Castroregio (Kastërnexhi), Cervicati (Çervikat), San Martino di Finita (Shën Mërtiri), Santa Caterina Albanese, San Benedetto Ullano (Shën Benedhiti), Mongrassano (Mungrasana), Rota Greca (Rrota), Serra d’Aiello (Serrë) e frazioni come Cavallerizzo (Kajverici), San Giacomo di Cerzeto (Shën Japku), Marri (Allimarri) e Macchia Albanese.

In provincia di Crotone, resistono le comunità di Carfizzi (Karfici); Pallagorio (Puhëriu) e San Nicola dell’Alto (Shën Kolli).

Infine, nella provincia di Catanzaro, esistono realtà di origine arbëreshë dove la lingua è in gran parte scomparsa, ma permangono tracce nella cultura e nella toponomastica come Caraffa di Catanzaro (Garrafë); Andali; Marcedusa; Gizzeria (Jacaria); Vena di Maida; Zangarona, frazione di Lamezia Terme.

Un’eredità viva

Gli arbëreshë di Calabria sono oggi riconosciuti come minoranza linguistica storica e tutelati dalla legge 482/1999. La lingua viene insegnata in diverse scuole, parlata in famiglia e nelle funzioni religiose. Il rito bizantino viene officiato regolarmente e rappresenta uno dei principali pilastri identitari. Le festività religiose — come il Dita e Shën Gjergjit (Giorno di San Giorgio), i matrimoni tradizionali e le processioni pasquali — sono veri e propri spettacoli di sincretismo culturale, nei quali l’anima balcanica si fonde con la religiosità meridionale.

Non meno importante è il contributo intellettuale degli arbëreshë: dal poeta Girolamo De Rada al patriota Francesco Antonio Santori, molti intellettuali dell’Arbëria calabrese furono protagonisti del Risorgimento culturale albanese e dell’identità italiana. In loro si incarna la doppia appartenenza: custodi dell’Albania perduta e costruttori dell’Italia moderna.

Un esempio per il presente

In un tempo in cui il dibattito sull’integrazione sembra spesso polarizzarsi tra paura e accoglienza, la storia degli arbëreshë rappresenta un esempio virtuoso: una migrazione antica che ha generato comunità coese, capaci di custodire la propria lingua e cultura senza mai isolarsi dal tessuto sociale e politico italiano. Le comunità arbëreshë sono la prova vivente che la diversità, se rispettata e riconosciuta, può essere una risorsa per costruire identità forti, inclusive e durature. Pier Paolo Pasolini definì quello degli arbëreshë un «amiracolo antropologico».

Nel silenzio dei vicoli di Civita o nel canto liturgico del monastero di San Demetrio, si ascolta ancora oggi la voce di una storia che ha attraversato mari, imperi e secoli e che continua a vivere, con fierezza, in Calabria.